articoli

BENEFICI CORRENTI E PROSPETTIVE FUTURE PER GLI EMOFILICI

Si è svolto il 21 febbraio un Webinar organizzato dalla Federazione Nazionale degli Emofilici (FEDEMO) con il contributo di CSL Behring, dal titolo: “Emofilia: benefici correnti e prospettive future per i pazienti”.
Hanno partecipato il prof. Il prof. Giancarlo Castaman Direttore del Centro Malattie Emorragiche, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze che ha introdotto il tema della gestione dell’emofilia e che cosa si può ancora migliorare.
La relazione centrale è stata tenuta dal prof. Paolo Simioni Direttore della Unità Semplice per la Diagnosi ed il Trattamento delle Malattie Trombotiche ed Emorragiche presso l’ospedale Universitario di Padova che ha svolto il tema: “Terapia genica, che cos’è e a che punto siamo”.
Ha introdotto Cristina Cassone presidente di FEDEMO.

Il prof. Castaman ha affermato che per parlare di terapia genica si doveva in qualche modo fotografare qual’è lo stato dell’arte per quanto riguarda il trattamento dell’emofilia.
“In passato – ha esordito – l’emofilia ha avuto momenti drammatici mentre negli ultimi anni sta vivendo un periodo aureo proprio per la molteplicità di offerte terapeutiche per cercare di risolvere problemi particolarmente importanti che in passato hanno alterato fortemente la qualità di vita dei pazienti fino ad arrivare potenzialmente ad offrire una possibilità di guarigione da questa patologia.
Dal 2010 abbiamo una terapia sempre più specifica, sempre più di alta qualità per cercare di risolvere il problema della patologia emorragica ma soprattutto per far sviluppare sempre di più quello che è il concetto innovativo degli anni 2000 in poi cioè la potenzialità di prevenire il rischio emorragico piuttosto che curarlo e questo in particolar modo per quanto riguarda l’emofilia B, avviene grazie alla produzione di concentrati di emivita prolungati che nell’emofilia B possono arrivare fino a 4-5 volte l’emivita dei precedenti fattori sia essi plasmaderivati o ricombinanti di fattore IX. Per l’emofilia A la situazione non è così brillante ma si sta lavorando anche a questo.
Per i pazienti con emofilia B siamo arrivati ad avere un regime di profilassi con intervalli infusionali molto alti, una maggiore flessibilità di dosaggio, una possibilità di individualizzare una terapia a seconda di quelle che sono le necessità non solo terapeutiche ma anche di stile di vita dei pazienti e quindi anche di avere dei livelli circolanti di fattore ben superiore di quando si proponeva negli anni precedenti e in questo modo garantire una maggiore efficacia nella prevenzione da rischi emorragici”.
Ha ricordato che in Italia il 40% dei pazienti con emofilia A o B è rappresentata dalla forma grave cioè da livelli circolanti di fattore XIII o IX inferiori all’1% e questa è la popolazione che più ha bisogno di avere un potenziale terapeutico definitivo, cioè di mantenere dei livelli costantemente presenti circolanti ricordando sempre che basta anche cambiare il fenotipo cioè il quadro clinico della malattia da livelli circolanti inferiori all’1% anche a 5-6% per un drastico miglioramento del rischio emorragico del paziente e quindi della qualità vita del paziente stesso.
“Negli ultimi anni – ha proseguito testualmente – i livelli di profilassi e quindi la somministrazione regolare del fattore carente è diventato lo standard di trattamento per l’emofilia grave e questo serve per prevenire i danni a lungo termine che sono comportati dallo sviluppo dell’artropatia.
Esiste ancora una certa fetta di pazienti, i moderati o i lievi, oppure gli adulti con emofilia grave, che sono ancora con regimi “on demand”, ovvero, quando avviene l’episodio emorragico o quando si devono eseguire degli interventi di chirurgia sia essa maggiore o minore, esistono degli episodi di traumatismi improvvisi quindi il paziente si tratta solo in situazione di rischio emorragico già in atto.
La profilassi è lo standard di trattamento perché se noi andiamo a vedere varie società scientifiche o associazioni nazionali o internazionali di pazienti, vediamo come tutte a partire dalla WFH raccomanda la profilassi nei pazienti con emofilia grave sia A che B e soprattutto sempre più si parla di regimi di trattamento personalizzati, non più guardare a livello marcatore la qualità della vita del paziente ma a livello in relazione con la storia clinica del paziente e le aspettative di vita che ha per cercare di raggiungere dei livelli del 5% che garantiscono una buona copertura dal rischio emorragico”.

L’IMPORTANZA DELLA PROFILASSI
Ha poi spiegato come la profilassi possa rimanere una definizione, un’aspirazione ottimistica laddove non si tengano in considerazione che ci sono degli aspetti che ne limitano l’impatto e che la fluttuazione dei livelli di fattore per cui un paziente può avere sempre in circolo quei livelli sufficienti per prevenire il rischio emorragico e questo richiede un’individualizzazione attenta del livello che è appropriato per ogni singolo paziente e proprio perché avere livelli bassi aumenta il rischio di sanguinamento ma soprattutto che la terapia sostitutiva, che è uno strumento straordinario per il paziente, ha con sé dei problemi che riguardano l’accesso venoso.
Infatti ha ricordato come “…sappiamo quanto sia problematico partire con una profilassi il più precocemente possibile in età pediatrica perché la profilassi ha un senso se viene iniziata e portata avanti in maniera regolare, continuativa e prolungata nel tempo e chiaramente nella popolazione pediatrica abbiamo una serie di difficoltà con accessi venosi e abbiamo anche una significativa quota di pazienti adulti che possono aver già sviluppato delle artropatie che impediscono una regolare somministrazione del fattore o che abbiano addirittura degli accessi venosi che sono diventati fibrotici che non permettono un’agile agopuntura e quindi tutte queste situazioni rappresentano una barriera per la profilassi.
L’altro aspetto che riguarda l’emofilia A come numerosità di pazienti ma anche l’emofilia B per la gravità delle offerte terapeutiche che non possono essere accessibili per questa fetta di popolazione, riguarda lo sviluppo degli inibitori, una complicanza della terapia sostitutiva che si associa con una morbidità significativa.
Abbiamo però delle alternative molto valide per i pazienti che hanno sviluppato l’anticorpo inibitore oltre all’immunotolleranza, quindi è chiaro che tutto questo comporta una gestione con un onere economico significativo che impatta sul Sistema Sanitario e che soprattutto non solo in termini di farmaco ma anche di preparazione adeguata del personale sanitario che si occupa di emofilia, richiede uno sforzo importante anche per cercare di capire quali possono essere le offerte e i vantaggi che possono portare le nuove terapie e come possiamo cercare di implementare nella pratica clinica.
Globalmente esistono ancora dei bisogni clinici insoddisfatti.
Abbiamo pazienti con emofilia A che possono avere l’inibitore, che possono avere difficoltà di gestire questo stato, i pochi pazienti con emofilia B con inibitore, sostanzialmente non hanno attualmente un’offerta terapeutica realmente a livello di pazienti con emofilia A e quindi è chiaro che abbiamo tutta una serie di problemi ancora aperti che dovranno essere affrontati in futuro.
Oltre a questo il trattamento di profilassi che sia fatto una volta ogni 15 giorni magari in emofilia B, magari 2-3 volte alla settimana in pazienti con emofilia A, comporta il fatto che per arrivare ad un risultato significativo sia aderente quindi mantenga il piano terapeutico che è stato concordato insieme al medico del Centro.
Questo però per il paziente può essere molto impegnativo come carico fisico per tutto quello che è correlato al fatto del pensiero continuo al trattamento, a ricordarsi delle scadenze che devono essere mantenute, in qualche modo non sentirsi completamente libero e dipende dal fatto che l’infusione possa determinare una parziale correzione del difetto e ovviamente nel tempo tutto quello che riguarda l’usura fisica che è correlata allo stato di salute che ha il paziente che comincia ad avere 30-40-50 anni quindi con dei cambi significativi rispetto alle nuove generazioni.
È chiaro che una bassa aderenza è associata all’aumento dei sanguinamenti e del dolore cronico che è stato per molto tempo trascurato ma in realtà è uno degli aspetti importanti quando si parla di patologia cronica come l’emofilia soprattutto per la popolazione di pazienti adulti.
Non dobbiamo però dare per scontato dal punto di vista medico che quello che noi vediamo utile e vantaggioso per il paziente non sia in realtà visto in maniera un po’ diversa dal punto di vista della qualità di vita del paziente stesso che vede il trattamento come una sorta di limitazione a quella che può essere la piena espressività e potenzialità di inserimento sociale e lavorativo e globalmente della qualità della vita.
È chiaro che i progressi nel trattamento hanno ridotto la mortalità e le complicanze maggiori.
Sappiamo che ormai le aspettative di vita nel paziente emofilico nei paesi industrializzati è comparabile a quelle delle popolazioni generali.
Non dobbiamo però dimenticare che il 75% della popolazione emofilica mondiale ha ancora grossi problemi di accesso alle terapie e dobbiamo pensare ai quei pazienti che abitano in latitudini diverse e non hanno la stessa offerta terapeutica che viene garantita nei nostri paesi.
Partendo dalla semplice sopravvivenza fino ad arrivare all’emostasi noi abbiamo la potenzialità di gradazione diversa di quello che è il trattamento dell’emofilia passando attraverso la minima complicazione articolare e la libertà dei sanguinamenti spontanei fino a raggiungere una mobilità e attività normali in grado di garantire che se avvengono dei traumi non importanti non ci sono conseguenze fino a poter accedere alla chirurgia necessaria senza aver bisogno di trattamenti particolarmente sostenuti.
Questo è lo scopo finale della terapia per l’emofilia e a questo noi dobbiamo sempre di più cercare di arrivare usufruendo di questi progressi che si stanno sempre più non solo affacciando ma anche stabilizzando nella pratica clinica di tutti i giorni.
Abbiamo una storia di 70 anni nel trattamento moderno dell’emofilia che ha portato a miglioramenti sostanziali per cercare di raggiungere uno stile di vita più vicino al normale, oltre alla possibilità di accedere ai nuovi concentrati con emivita prolungata, recentemente per pazienti con emofilia A sia con che senza inibitore, abbiamo la possibilità di utilizzare la terapia non sostitutiva che in alcuni casi è stato realmente un vantaggio estremamente positivo e che ha portato dei nuovi entusiasmi anche nei clinici che trattano questi pazienti, fino ad arrivare al punto della potenzialità della terapia genica che possa essere risolutiva per i pazienti candidabili o che comunque possa garantire per anni una qualità di vita importante per il paziente candidabile all’utilizzo di questo approccio terapeutico.
Come sarà il futuro della terapia dell’emofilia?
Ci saranno molteplici operazioni terapeutiche.
Quale sarà la migliore offerta terapeutica?
Per il singolo paziente sarà condiviso dal clinico e il paziente stesso che ha chiare aspettative e necessità anche nella vita di tutti i giorni e che dovrà essere estremamente esplicito su quella che sarà la sua preferenza, volontà rispetto a quelle che sono le nuove armi terapeutiche che noi abbiamo.
Come ci racconterà il prof. Simioni l’emofilia A e B sono candidati ideali per la terapia genica perché sono malattie monogeniche cioè c’è un singolo gene che produce il fatto VIII o IX, quindi correggendo questo gene noi potremmo correggere la malattia.
Basta arrivare a livelli del 20-30% per cambiare il rischio emorragico che ha il paziente con emofilia, da questo punto di vista ci agevola nella ricerca del migliore strumento terapeutico di terapia genica.
Abbiamo la possibilità di valutarne l’efficacia, valutando quelli che sono i livelli circolanti che noi otteniamo nel singolo paziente e quanto questi si correggano con l’abbattimento emorragico che il paziente stesso ha”.

E’ con queste premesse che il prof. Castaman lascia la parola al prof. Paolo Simioni.
Dall’intervento, molto preciso e circostanziato prendiamo la parte in cui affronta l’argomento delle modalità in cui avviene l’inserimento del gene cosidetto correttore.
“L’emofilia è una malattia monogenica – ha affermato testualmente e lo evidenziamo anche in una prima figura – e l’idea di terapia genica è quella di andare a correggere questa alterazione genetica.
Le modalità che si possono immaginare sono fondamentalmente due.
O un sistema per entrare in quel gene e riscriverlo oppure portare un gene che funzioni all’interno delle cellule. In questo caso abbiamo degli ottimi alleati che sono vettori virali che comunque hanno poco a che vedere con i virus.
In qualche modo si assomigliano da fuori. Sono come delle scatole che assomigliano ad un determinato tipo di virus. Si usano questi adeno-assocati che si chiamano così perché non hanno il contenuto del virus.
Sono involucri ottimali per contenere al loro interno un qualche cosa che noi inseriamo e cioè il gene che codifica, che sintetizza in qualche modo la proteina.
Questo che è una sorta di inganno che facciamo in qualche modo alla cellula perché utilizziamo un agente virale o che era un agente virale che in qualche modo può entrare perché ha dei recettori specifici per quel determinato tipo di cellula.
E così si porta dentro questo vettore (come si vede bene dalla immagine che pubblichiamo – n.d.R.) che rilascia questo DNA che può utilizzare i sistemi della cellula per produrre quella proteina che ci permetterà di correggere il difetto”.
A questo punto il relatore si chiede per quanto riguarda il gene dell’emofilia A e dell’emofilia B quali sono le differenze.
“L’emofilia A ha un gene molto grande rispetto a quello dell’emofilia B (la seconda foto dimostra quanto detto dal prof. Simioni). Questo ha un corrispettivo rappresentato dal fatto che il gene del fattore IX ci sta dentro in modo più comodo.
Tutto questo provoca una serie di problematiche per definire quella che è la potenzialità della terapia genica soprattutto per quanto riguarda l’emofilia A.
Questi virus hanno il compito di inserire all’interno della cellula quello che è quel gene funzionale o patrimonio genetico a cui manca per effetto di una alterazione che è il gene che ci interessa che produca la proteina mancante cioè il fattore VIII o il fattore IX della coagulazione.
L’organo bersaglio che ci interessa di andare a colpire per permettergli la produzione del fattore mancante è il fegato, ma non è il fegato in generale come abbiamo creduto fino a poco tempo fa. In realtà l’attenzione di questa sintesi del fattore VIII è evidentemente legata a particolari cellule del fegato che sono cellule endoteliali, dei vasi capillari che sono al suo interno che hanno questo rivestimento e servono per il nostro fattore VIII. Quindi è molto importante che questa struttura vada proprio ad inserirsi in queste cellule. Chiaramente per fare questo si carica questa struttura per generare il fattore VIII. Il fattore del gene è così grande che si è pensato ad un certo punto di ridurlo. Quindi quella parte di gene che sintetizza una parte del fattore VIII che è poco utile, e questo detto tra virgolette, per quanto riguarda la funzione di questo fattore. Mettiamo dentro un gene un po’ piccolo da permettere di dargli la possibilità di stare ben dentro a questo capside che è piccolo. (E’ la struttura proteica che racchiude l’acido nucleico del virus e lo protegge dall’ambiente esterno come ha spiegato lo stesso relatore – n.d.R.).
Per quanto riguarda invece il fattore IX che è un gene più piccolo può essere utilizzato perché va ad interessare il fegato e quindi utilizzarlo come organo bersaglio per la sintesi del fattore IX. Questo sistema funziona bene perché all’interno c’è un piccolo pezzettino che noi chiamiamo “promoter” che in qualche modo dice al sistema enzimatico che serve a produrre questo fattore quanto di questo fattore.
A questo punto abbiamo tutto pronto e dovrebbe funzionare tutto per il meglio ma non è proprio così perché di fatto esistono una serie di problematiche per cui non si può usare più di tanto questo vettore perché se ne diamo troppo in realtà suscitiamo la risposta dell’organismo contro questo vettore.
Dobbiamo avere quindi una espressione limitata di qualcosa che funzioni e questo è in riferimento al fattore IX”.

Il prof. Simioni, continuando il suo intervento si chiede:
“Cosa ci aspettiamo dalla terapia genica?
Ci aspettiamo che il vettore funzioni e soprattutto che ci siano pochi effetti indesiderati”.
A questo punto ha richiamato l’attenzione soprattutto sul cambiare la severità della malattia illustrato molto bene dalla slide che parla di espressione sostenuta e duratura dei fattori dopo una singola somministrazione; il controllo dei sanguinamenti spontanei; l’eliminazione del ricorso alla profilasssi e quindi il susseguente miglioramento ulteriore della qualità della vita.
In conclusione del suo intervento illustrando come esistano molti studi a livello internazionale che si occupano di questo problema e che stanno cercando di risolverlo creando addirittura una razza canina carente di fattore per poter studiare al meglio e sperimentare le tecniche che ha illustrato per quanto riguarda i fattori VIII e IX, raccontando del suo appassionarsi negli anni ad una materia che non era la sua, ha voluto ricordare una frase attribuita al filosofo Aristotele vissuto dal 384 al 322 avanti Cristo nella quale afferma che “La natura non crea nulla di inutile” ricordando che dobbiamo comunque sempre saper leggere ciò che ci insegna”.

LE DOMANDE DEI PAZIENTI
Ci sembra importante riprendere le risposte in base ad alcuni quesiti posti da Enrico Ferri Grazzi del Comitato Giovani di Fedemo sia in termini di sicurezza sia, soprattutto sui tempi in cui si potrà avere una certezza sulla effettiva terapia genica ai quale ha risposto il prof. Castaman.
“Non esiste una realtà puntiforme – ha affermato – per cui abbiamo una terapia genica adesso disponibile per tutti, ma è un percorso che si sta facendo e quindi molte delle domande avranno una risposta solo coll’andare del tempo. Ciò che resta comunque importante da considerare dal punto di vista pratico a mio parere è che comunque il percorso anche in termini di presa di decisioni delle autorità regolatorie è iniziato.
Potenzialmente in termini di popolazione limitata e secondo particolari condizioni, noi potremmo avere disponibile in Europa a fine 2022 ed in Italia verso la metà del 2021.
Sono tempi che si stanno disegnando e da prendere sempre con le dovute cautele.
Per arrivare a questo però dobbiamo fare tutti un percorso che riguarda la comunità dei pazienti, le autorità regolatorie e soprattutto noi medici perché va costruita una sorta di articolazione e di condivisione di quelle che saranno poi tutti gli aspetti dei quali ha fatto riferimento attraverso la domanda.
Cioè quali saranno i pazienti e come farli accedere per capire al meglio se e come potranno usufruire della terapia genica, come seguirli, come inserirli in registri speciali per continuare l’osservazione anche a distanza di anni, soprattutto capire quali siano i limiti della sicurezza.
Un mondo nuovo che si apre e che ci pone un grande lavoro anche entusiasmante.
Il mio richiamo comunque è soprattutto ad organizzare Webinar che trattino l’argomento ed i vari aspetti di questo affascinante futuro”.

Tag: