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TERAPIE INNOVATIVE E NUOVI TRAGUARDI

Per chi, come il sottoscritto, svolge da quasi mezzo secolo, il mestiere di giornalista attraverso questa testata, partecipare agli eventi legati all’informazione delle persone alle quali siamo rivolti è non solo un dovere ma un obbligo morale, soprattutto per contribuire ad una maggiore chiarezza sulla cura, quale sia la conoscenza della patologia da parte delle famiglie, come viene vissuta e come viene affrontata con il cambiamento di età dei figli e soprattutto con il miglioramento dei farmaci.
Nel caso specifico si è parlato di emofilia, sul come la si affronta, discutendo e partecipando attraverso appunto l’informazione.
Il 2020 ed anche il 2021, “colpevole” la pandemia da Covid, ha rappresentato un’occasione per migliorare ed approfondire queste informazioni.
Devo in questo caso rivolgere un plauso a tutte le aziende che si sono fatte carico dell’organizzazione di questi eventi, iniziando, o meglio, concludendo con questo, al quale ho partecipato ed era il sesto della serie di “Emofilia A – il dialogo continua”, il titolo al quale faccio riferimento ricordando che gli incontri erano iniziati il 26 settembre 2020.
I temi svolti erano stati:
“I trattamenti dell’emofillia A: cosa posso aspettarmi dalle terapie innovative;
il 7 novembre incentrato sulle domande ai medici su “Il dolore nelle età del paziente emofilico”;
il 21 novembre “Comorbilità ed effetti collaterali”
Nel 2021, il 29 maggio il tema era stato: “La donna nel mondo “maschile” dell’emofilia”;
il 24 giugno “Come ottenere il massimo dalle terapie innovative ed avere uno stile di vita dinamico”.


In questi incontri, molto del successo e dell’interesse che si crea dipende anche dalla conduzione affidata ad una persona che conosca bene il suo mestiere ed anche la patologia della quale si parla.
In questo caso parlo di Silvia Malosio di Smc media che ha voluto destare l’attenzione attraverso un momento iniziale nel quale ha rivolto alcune domande a tre emofilici di età diverse: dal diciottenne, al trentenne, al sessantenne.
In apertura poi ha chiarito che durante l’incontro si sarebbe chiesto alle nuove generazioni di far comprendere in quale direzione vogliano andare e quali nuove tecnologie possano essere al passo con le loro aspettative.
“Ma avremo bisogno di alcuni “traduttori” – aveva detto testualmente – perché abbiamo capito che ad età diverse corrispondono linguaggi diversi. Parleremo anche della transizione dal pediatra ai Servizi Sanitari”.

UN DIBATTITO CON IL COINVOLGIMENTO DEI PAZIENTI
Una premessa che comunque è stata in qualche modo disattesa (a beneficio del dialogo che si sarebbe sviluppato) uscendo come suol dirsi in gergo, dal seminato (il tema specifico dell’incontro) ma ha creato i presupposti per interventi ed un dibattito su un problema sempre attuale e cioè come si affronta la malattia, da parte della famiglia, del paziente e del medico.
Alle domande rivolte ai due adulti, Marco Bianconi componente del Direttivo di Fedemo, Alessandro Marchello presidente di ACE, l’Associazione Coagulopatici ed Emofilici di Milano e Giovanni Bisceglia un giovane emofilico marchigiano, si sono evidenziati alcuni aspetti di quanto sia cambiato nel tempo l’approccio alla malattia.
Dalla risposta del giovane che afferma come il suo sport preferito sia il calcio a quella del più anziano che non è mai andato in bicicletta.
Dal non ricordo di episodi traumatici del più giovane, ai drammatici ricoveri ospedalieri soprattutto notturni, del più anziano.
Infine il rapporto e l’informazione con le famiglie, naturalmente con il medico per la completezza delle informazioni.
Le famiglie appunto e per questo anche il vostro cronista si permette di stravolgere quella che è stata la “scaletta” degli interventi, partendo da quanto ha affermato il dott. Giancarlo Castaman direttore del Dipartimento Malattie Emorragiche dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi dell’Università degli Studi di Firenze.

“È importante per noi medici – ha esordito – la capacità per ogni famiglia di trovare i tempi per parlare, per esprimere, per comunicare ma soprattutto per costruire un percorso.
Cerchiamo di mettere insieme famiglie e medici che devono trovare il tempo di voler comunicare con il paziente per coinvolgerlo e fargli comprendere quanto siano importanti le esperienze.
Abbiamo attualmente una rappresentanza di emofilici che seguiamo che vanno dal bambino all’adulto e la comprensione e la capacità di affrontare la malattia si acquisisce attraverso non solo dalla cura ma nel dialogo.
Questo per affrontare per tempo l’informazione che è legata alle possibili complicanze quando sono legate alla non assidua osservanza della terapia.
Cerco di semplificare, parlando dei linguaggi, che devono essere diversi, appunto per le diverse età che si affrontano.
“Ecco che abbiamo in mente il fatto che l’emorragia si trattava esclusivamente in ospedale – ha proseguito – ed ora invece si può gestire anche da casa attraverso la profilassi.
Ma la profilassi a sua volta ha messo in luce un altro aspetto che garantisce più autonomia e la possibilità a lungo termine di costruire un aspetto di qualità fisica ben diverso dal passato, ma non deve da questo punto di vista far venir meno il fatto che il colloquio continuo anche con i medici e gli psicologi del Centro sia mantenuto.
L’emofilia oggi si basa soprattutto nell’andare oltre l’aspetto prettamente del singolo evento emorragico, del prevenire l’artropatia ecc.. ma si guarda a 360° a quella che è la qualità della vita che viene espressa in diverse direzioni.
Pazienti che prima di tutto sono persone e come tali hanno bisogno di tutto quello che è associato al fatto di essere persona umana.
Poi c’è l’aspetto un po’ più tecnico ma anche più affascinante dal mio punto di vista, ovvero di costruirsi la relazione della malattia cronica che è anche genetica e qui ci sono tanti altri aspetti da considerare e anche di relazione, per esempio con la madre. Sensi di colpa che ancora oggi vedo presente in molte madri di pazienti che hanno 40-50 anni e che accompagnano figli ai check-up.
Per dirvi come in passato siano state costruite e siano state di necessità un po’ deviate questo tipo di rapporto anche tra genitore e figlio, ancora oggi la grande maggioranza dei genitori che si sono presi cura dei figli che hanno una certa età, sono madri sostanzialmente e anche questo vuol dire molto perché il linguaggio materno è ben diverso dal linguaggio paterno.
Anche da questo punto di vista si crea un sistema di relazioni che non è sempre facile da decifrare. Quindi dal nostro punto di vista la continuità del rapporto con il paziente e l’endurance familiare è importantissimo, non dimentichiamolo.
Ricordiamoci sempre che dare piena autonomia non vuol dire svincolare da un rapporto con medici cui molte volte i pazienti stessi chiedono la valutazione “psicologica”, sociologica ecc.
Molte volte giocando insieme costruiamo anche le regole e qui vuol dire che dobbiamo continuamente avere anche l’umiltà di ascoltare, parlare e capire meglio proprio in relazione ad ogni singolo paziente, ogni singola famiglia che possono essere completamente diversi, proprio perché anche loro sviluppano una loro dinamica di rapporti familiari che sono completamente diversi da quando si presentano magari al centro a discutere di salute.
È chiaro che la prima responsabilità è del medico è quella di essere adeguatamente aggiornato e informato di quelle che sono le attualità terapeutiche anche in relazione alle singole esigenze dei pazienti perché abbiamo detto che possono essere completamente diverse, cioè parlare di un paziente che ha 40 anni o uno di 10 anni è una cosa completamente diversa.
Da questo punto di vista dobbiamo avere tempo sufficiente e volontà di dialogare con i pazienti, far capire meglio perché si vorrebbe scegliere una terapia piuttosto che un’altra o comprendere quella che è l’aspettativa del paziente ma anche gli strumenti di conoscenza che ha.
Ricordiamoci anche che molte volte i pazienti comunicano tra di loro su siti diversi e si creano aspettative che possono essere errate in relazione al proprio stato personale di salute.
E torno al fatto di come si costruisce il rapporto fin da subito, laddove la famiglia arriva dopo aver consultato, girato tutti i siti internet e arrivati con ansia e angoscia, oppure famiglie che sono completamente prive di ogni strumento perché non si pensava che il bambino fosse affetto da questa patologia e quindi fin da subito si cerca di costruire un rapporto che sia realmente propositivo ma anche condiviso non solo dall’aspetto terapeutico ma poi in relazione a tutti gli altri problemi, cioè inserimento all’asilo nido, inserimento a scuola, cosa potrà o non potrà fare, se è giusto andare ad esempio al campo estivo in Romagna ecc.
Quindi è una pedagogia continua per noi perché impariamo sempre di più in relazione a quello che esprimono i pazienti e imparano a capire meglio perché si sceglie una terapia piuttosto che un’altra. È un lavoro continuo non bisogna mai dare un messaggio che sia esaustivo in una singola occasione ma va costruito nel tempo”.

COINVOLTA NEL DIBATTITO L’ESPERIENZA DELLA VACANZA IN ROMAGNA
Silvia Malosio, prendendo spunto dall’affermazione del dott. Castaman, se sia giusto per l’esperienza dei giovanissimi, al di fuori dell’ambiente famigliare, partecipare ad esempio alla Vacanza in Romagna, ha subito coinvolto Alessandro Marchello che ne coordina l’organizzazione ed è rivolta ad una fascia di età abbastanza critica, dai nove ai 13 anni.
“In diciassette anni abbiamo visto più di trecento ragazzi – ha affermato – che poi diventano adolescenti perché da noi vengono piccoli e spesso sono alla loro prima esperienza di distacco dalla famiglia lasciando idealmente la mano dei genitori.
Poi li abbiamo visti crescere perché coinvolti da più grandicelli a far parte del campo estivo in una maniera diversa e cioè dalla parte di chi gestisce i più piccoli.
Riteniamo questo un passaggio fondamentale di generazione perché arrivano a volte intimoriti e diventano quelli che osservano poi il comportamento dei più piccoli.
Questo ci permette sostanzialmente di osservare il cambiamento in riferimento alla conoscenza ed alla consapevolezza della loro situazione in funzione di come viene trasmessa dalla famiglia.
Abbiamo notato negli anni che la vera difficoltà è che non avendo un’esperienza diretta della malattia, come ci si ammala ad esempio, non sono in grado di determinarne l’insorgenza e la possibile gravità. Perché chi non ha mai avuto un emartro traumatico molto doloroso oppure un ematoma allo psoas che blocca una persona per mesi, fatica a immaginare il collegamento con la terapia ed il conseguente benessere.
A seconda di come questa notizia viene loro inculcata, crescono ed il campo estivo per noi e soprattutto per loro diventa un’esperienza totalizzante per sette giorni, ventiquattro ore su ventiquattro, giorno dopo giorno.
Dopo essere arrivati, detto in modo non certo critico, dipendenti dai genitori, quello spazio nel quale li facciamo stare e li accompagniamo in questo luogo di esperienza, permette loro anche di osservare ciò che succede agli altri, come ad esempio il vedere ed il provare l’auto-infusione oppure, in questo caso quelli un po’ più grandi di 12 o 13 anni che hanno un rapporto più diretto con la terapia.
Offrire delle possibilità e quindi far fare loro esperienza dirette di sicuro è molto più efficace che inculcare loro le stesse cose a parole.
La cosa bella dell’infusione è che quando i bambini vedono gli altri bambini infondersi molto spesso desiderano imparare.
Quindi il momento magico della vacanza è che c’è un momento in cui provano, sperimentano l’infusione lontano da casa, cioè non con i genitori che li guardano, gli tengono la mano ecc, sono in un ambiente di gioco e imparano, non diventano esperti subito ma provano.
Poi chiamano a casa ed è il momento più bello, forse più frustrante per qualche genitore ma più bello perché è l’inizio dell’indipendenza.
Succede spesso che quando i bambini soprattutto quelli di nove anni che non sono mai stati lontani dai genitori hanno il coraggio, magari a qualcuno viene imposte il coraggio di farlo, o qualcun altro si prende il coraggio di farlo e lo porta fino in fondo, al punto che noi specifichiamo che vorremo gestire il contatto con i genitori in maniera contenitiva non espansiva come vorrebbero quasi tutti i genitori che magari vorrebbero stare lì con loro in vacanza, molti di questi bambini preferiscono dirci che non vogliono sentire i genitori perché altrimenti si sentirebbero un poco agitati; per questo chiedono a noi di chiamare i genitori e dire loro che va tutto bene. Ci rendiamo conto che questo è un affronto clamoroso nei confronti dei genitori, però questa è una grande possibilità che si prendono e chi la coglie è felice.
Questa è senz’altro una possibilità di offerta diversa dalla routine quotidiana”.

L’IMPORTANZA DEL PROGETTO PUER DI FEDEMO
Ed a proposito delle esperienze maturate negli anni ha voluto per completezza di informazione raccontare un episodio abbastanza lontano dai giorni nostri.
“Alla fine degli anni ‘90 – ha affermato testualmente – la Federazione delle Associazioni degli Emofilici ha fatto un progetto che si chiamava PUER (Progettiamo Un’Esperienza Ripetibile – n.d.R.).
Era l’occasione per mettere insieme persone coordinate da una mediatrice che faceva da facilitatore e c’erano i genitori di bambini piccoli che si trovavano e mettevano sostanzialmente a disposizione la loro esperienza; quindi con figli di diverse fasce di età e si parlava di tante cose, del port-a-cath (E’ un dispositivo per l’accesso venoso centrale permanente, ovvero che può rimane in sede nella vena senza limiti di tempo – n.d.R.) che a quei tempi era un grande must; poi c’era la fistola, c’erano anche le profilassi..
Si parlava dei temi principali con angoscia, con leggerezza a seconda del grado di esperienza che ogni genitore aveva acquisito nel frattempo.
A un certo punto durante uno di questi incontri che si sono svolti in tutta Italia e che hanno coinvolto i genitori che entravano in questi gruppi degli adulti e quindi vedevano manifestarsi davanti a loro il futuro così angosciante del loro figlio era già un grande sollievo.
La cosa che successe allora ad un certo punto in uno di questi episodi era che noi eravamo nell’oratorio di una Chiesa e i genitori venivano con i bambini che venivano tenuti da qualcuno lontani dai genitori e sentirsi dire quanto fosse difficile vivere con loro.
Ad un certo punto si è sentita una grande esplosione di rumori, di grida di gioia.. tutti si sono affacciati dalla finestra e hanno guardato di sotto e hanno visto i loro figli che giocavano, correvano, giocavano a pallone ed erano estremamente felici.
Un momento di una semplicità imbarazzante ma che per loro, quando si sono rigirati e messi a sedere sulle loro sedie, è come se si fossero svuotati, tranquillizzati”.

Un genitore responsabile di associazione che ha vissuto l’esperienza attraverso il figlio ed in riferimento anche al racconto di Marchello ha confermato che la capacità di poter provare sul campo l’esperienza con altri ragazzi è per il piccolo emofilico enormemente a suo vantaggio. Ha poi continuato testualmente:
“Le terapie sono cambiate e non è pensabile mettere il ragazzo sotto una campana di vetro.
La capacità che i genitori dovrebbero avere nell’approcciarsi ai figli quando ci sono le prime avvisaglie attraverso emartri o quant’altro è fondamentale perché lui, assolutamente prende coscienza in tranquillità delle sue problematiche.
Il “non… non lo dovevi fare” peggiora di sicuro la situazione anche perché magari la seconda volta lo fa e non ti fa partecipe.
Naturalmente la padronanza di poter gestire la sua patologia soprattutto poi nei rapporti con il medico o l’infermiere del Centro che diventano persone quasi di famiglia con le quali condivide tutti i momenti del suo percorso di cura”.

La discussione è continuata ormai proprio su questo argomento e Silvia Malosio ha voluto ascoltare anche il parere del dott. Pollio, del Servizio di Immunoematologiae MedicinaTrasfusionale del Dipartimento di Diagnostica della Città della Salute e della Scienza di Torino, il quale facendo riferimento ai rapporti con le famiglie ha affermato testualmente:
“… Ho visto per quanto riguarda i genitori che c’è un continuo apprendimento sull’emofilia anche se il momento della diagnosi appare a volte traumatico.
Poi alla comunicazione della diagnosi e man mano che i mesi passano e che si convive con la malattia, imparano a distinguere ad esempio, gli emartri.
L’emofilia amplifica quello che qualsiasi genitore deve imparare, cioè capire quanto devo essere protettivo e quanto devo dare libertà al figlio.
È un equilibrio che ognuno di noi deve sviluppare come genitore e che in fondo l’emofilia amplifica un po’.
E l’aderenza è un problema che riguarda soprattutto l’aver capito l’importanza delle terapie nel mantenere uno stato di salute con i genitori e soprattutto il momento dell’infusione, il sentire il bimbo piangere, una volta che il genitore impara a superare questo ostacolo avendo presente il beneficio ultimo che non è tangibile nell’immediato e l’aderenza sarà garantita.
L’importante è far capire ai genitori il ruolo e il valore della profilassi per garantire la salute del proprio bambino”.

I MODELLI DI RIFERIMENTO PER I BAMBINI
Il dott. Pier Calo Salari, Pediatra, operativo a Milano, dove si occupa di Pediatria generale, nutrizione e prevenzione e lavora nel campo della ricerca di laboratorio e clinica sia alla divulgazione medico-scientifica e alla formazione/aggiornamento professionale si è inserito parlando del bambino in generale e dei suoi modelli di riferimento.
“Il bambino fino ad una certa età – ha affermato – ha bisogno di modelli di riferimento e spesso il suo comportamento è lo specchio di quello che vede in famiglia: genitori attenti, precisi, meticolosi trasmettono questo valore perché non c’è migliore esempio del proprio comportamento/stile di vita che il bambino possa avere.
Il vero problema nasce con l’adolescenza perché l’adolescente è tendenzialmente ribelle, ha bisogno di conquistarsi una propria autonomia, una propria dimensione e sicuramente il dialogo diventa anche più complesso se il pediatra o in questo caso lo specialista è riuscito nel frattempo a costruire, a investire nella comunicazione, a creare un rapporto empatico.
Sicuramente diventa un riferimento prioritario rispetto a quello che può essere una figura genitoriale nei cui confronti l’adolescente spesso manifesta comunque conflittualità ed è insito nella sua indole e fa parte di un percorso di crescita.
Parlando dell’aderenza va detto che riguarda almeno il 30% di tutti i pazienti cronici quindi non è soltanto un aspetto dell’età evolutiva ma è una problematica seria a livello clinico e siccome purtroppo le malattie croniche sono quelle che oggi maggiormente preoccupano, diventa per il medico un impegno notevole quello di vigilare e caldeggiare l’assunzione ai farmaci.

Il linguaggio deve essere calibrato alla singola situazione, non c’è una regola precisa, dipende molto dalla sensibilità umana dell’operatore e dalla capacità di instaurare un rapporto che non sia puramente tecnico ma quasi affettivo/empatico con il paziente.
Il bambino recepisce quello che i genitori gli trasmettono riguardo le regole che devono essere rispettate. Il medico di fronte a questo si trova in una duplice veste cioè far conoscere i sintomi ed allo stesso tempo sensibilizzare soprattutto il fatto che il rispetto delle regole si trasforma in una cura preventiva perché si evitano le possibili complicanze legate al non rispetto delle regole di cura.
Linguaggio diretto quindi migliorato anche attraverso immagini. Spiegargli che lo star bene è una conquista e non un impegno noioso”.

Si è inserito nel dialogo ancora una vota il dott. Pollio parlando dell’aderenza alla terapia.
“Abbiamo discusso della complessità dell’aderenza che ha tanti aspetti. – ha affermato – Con il range di terapie di cui disponiamo oggi una variabile che bisognerà considerare sempre di più è quanto le terapie sono in grado di semplificare questa complessità perché ad un certo punto se io ho due soluzioni per risolvere lo stesso problema e una soluzione è più semplice dell’altra a parità di efficacia è un mio dovere scegliere quella più semplice perché è quella che ha più probabilità di essere seguita.
Diventa proprio un ragionamento matematico ed in un futuro, secondo me, dovrà essere anche un nuovo modo di pensare anche di tutti noi operatori perché poi la scelta terapeutica è condivisa fra tutti”.

La conduttrice poi riporta in primo piano l’argomento della frequentazione delle famiglie con i piccoli emofilici che è abbastanza complesso. La transizione dal pediatra allo specialista che si occupa del paziente adulto diventa un cambiamento a volte problematico.
Ma, si chiede: esiste una età del cambiamento? Domanda rivolta al dott. Pollio il quale ne parla facendo un esempio.
“A Torino esistono un Centro pediatrico e tre Centri per gli adulti. E qui la transizione riguarda anche i clinici perché in altre parti d’Italia sappiamo che nella maggior parte dei casi l’ematologo si occupa sia del bambino che dell’adulto. In ogni caso il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta è una transizione che comporta dei cambiamenti ai quali sarebbe sempre bene prepararsi in maniera non casuale ma strutturarla.
I genitori devono rendersi conto che devono fare un passo indietro perché il figlio è diventato adulto e diventa automaticamente responsabile della propria terapia.
È una sorta di processo di apprendimento dal fatto di essere eccessivamente protettivi.
Allo stesso tempo il ragazzo deve diventare autonomo. Mi piacerebbe che a questo proposito, che dall’AICE (L’Associazione dei Centri Emofilia) scaturisse un progetto di creazione di un referto condiviso fra tutti i Centri di cura.
So che AICE stessa ha lavorato ad un progetto di consenso informato per la somministrazione dei farmaci. Secondo me potrebbe essere utile anche un modello di referto che agevoli la comunicazione e quando avvengono i cambiamenti.
E potrebbe riguardare il passaggio dal centro pediatrico a quello dell’adulto. Referti soprattutto esaustivi in considerazione che potrebbero essere letti da un medico di pronto soccorso in regime di urgenza”.

La dottoressa Chiara Biasoli responsabile del Centro Emofilia della Romagna con sede presso l’ospedale Bufalini di Cesena e responsabile medico della Vacanza in Romagna ha voluto sottolineare che: “…Questo incontro è stato dedicato ai pazienti però deve essere anche un messaggio che io mando alla comunità medico-scientifica.
Dopo 17 anni di questa esperienza della quale vi ha illustrato i risultati e le finalità Alessandro, vi posso assicurare che ogni anno imparo qualcosa e lo imparo sotto due profili. Si è parlato del tema della terapia, dei cambiamenti che hanno permesso questi trattamenti e le opportunità che hanno questi ragazzi di giovarsene.
Come medico vedo sul campo la vera vita reale.
Chi può avere un’occasione di stare insieme dalla mattina alla sera e vedere le loro necessità cliniche, non dettate da studi fatti in ambulatori con poco tempo a disposizione?
In età pediatrica diciamo sempre che la famiglia per il paziente è molto importante ma non dimentichiamo che per un bambino di 11-12 anni il suo esempio non sono i coetanei ma i genitori per cui molte volte trattiamo molto, ma trattiamo la famiglia e dobbiamo giustamente farlo ma non dimentichiamoci l’alleanza terapeutica che dobbiamo avere con lui.
L’altra parte che imparo come medico è proprio nella comunicazione. Credo che sia un’opportunità per tutti ma anche per chi li deve seguire bene. E qui mi rivolgo ai miei colleghi dicendo loro, quando lavorate negli ambulatori di estraniarsi un attimo e pensare a quelle che sono le necessità di questi ragazzi oltre alla famiglia. Questo è molto importante”.

In conclusione la conduttrice affronta il tema che è ricorso in questo incontro e cioè che noi continuiamo a chiedere ai giovani emofilici il peso delle loro aspettative.
Ha cercato di rispondere Elena Urso, psicopedagogista esperta della comunicazione, delle relazioni umane e dei processi di formazione.
“Gli adolescenti emofilici (soprattutto allo stato attuale) NON differiscono molto dagli adolescenti generali. L’oscillazione dell’umore e dei comportamenti è tipica dell’età adolescenziale: il rifiuto delle imposizioni, delle regole da seguire, dell’orientamento dettato dagli adulti (ivi comprese le cure mediche) fa parte del percorso evolutivo. Percorso fatto di sperimentazione che tende a raggiungere il distacco dalla famiglia e dagli adulti di riferimento per trovare, attraverso innumerevoli tentativi, la propria strada autonoma e originale.
I ragazzi ignorano le esperienze pregresse delle persone malate prima di loro, pertanto tali esperienze sono una motivazione debole, che influisce poco sul loro comportamento.
Anche il senso della propria cura deve trovare una dimensione personale, non necessariamente collegata o derivante dalle esperienze altrui sconosciute e astratte dal punto di vista dei ragazzi.
Ecco perché risulta molto più efficace una condivisione delle esperienze sia in modo diretto (es. iniziativa di Alessandro) sia attraverso la narrazione delle storie degli altri. In questo modo i ragazzi recepiscono meglio i messaggi, perché viene escluso ogni giudizio e ogni aspettativa.
Le aspettative degli altri sono l’altro punto delicato da considerare. Perché i ragazzi possano esprimere i propri desideri, le proprie aspirazioni e individuare le proprie aspettative, è necessario che vengano sollevati dal peso delle proiezioni degli altri, siano essi familiari, medici o altri malati. Ciò che un ragazzo desidera o si aspetta dal futuro, anche in termini di qualità di vita o di progresso nelle cure, può essere espresso sia a livello di pensiero sia di parola soltanto se si evita ogni forma di condizionamento e di determinazione di un certo standard da rispettare.
Le aspirazioni personali NON possono sostenere il peso delle esperienze altrui.
Inoltre, la proiezione nel futuro è come forzare una cosa che i ragazzi non sono in grado dal punto di vista emotivo. Si chiede loro di sostenere qualcosa che in quel momento non sono in grado di fare perché sono molto presi dal presente, anche semplicemente capire come sono fatti fisicamente. Per questo ha molto valore l’augurio di Giovanni che dice “Spero di continuare così”.

L’altro aspetto quindi da snellire è la pretesa che i ragazzi oggi mantengano, per esempio, una costante aderenza alle cure in virtù di un senso di gratitudine verso le generazioni precedenti, che hanno consentito di approdare agli attuali miglioramenti in campo medico e di conseguenza esistenziale. Chiediamo loro di determinare il loro comportamento in base a qualcosa che non conoscono e di cui NON hanno esperienza. Perciò impossibile da fare.
La motivazione sarà una motivazione interiore, più efficace e duratura, se verrà costruita attraverso la propria esperienza personale e secondo la propria sensibilità e volontà.
In più, la capacità di esprimere ciò che sento, ciò che desidero e ciò verso cui aspiro si acquisisce nel tempo, partendo dall’infanzia.
Se i bambini sono accolti nelle loro emozioni (tutte!) si sentiranno liberi di esprimerle e autorizzati a comunicarle.
E questo sarà utile anche nell’adolescenza e nell’età adulta.
Sarebbe opportuno anche offrire loro un linguaggio ricco e vario che consenta loro di mettere in parola ciò che sentono.
Fondamentale ancora in questo delicato percorso è accogliere le ansie, le paure, le insicurezze dei genitori, soprattutto durante l’infanzia.
Sosteniamo loro in modo che possano contenere eventuali paure, angosce, rabbie…dei propri figli.
Formuliamo con loro possibili scenari in cui potranno trovarsi insieme con i figli. E rassicuriamoli del fatto che ogni reazione dei figli, soprattutto dei bambini, è legittima.
Questo li solleverà molto anche da un loro eventuale senso di inadeguatezza”.

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