Inizia il 2015, quarantaduesimo anno di vita del nostro giornale, con l’immagine dell’Italia, semplice “stivale” senza la suddivisione in regioni.
Qualcuno, come sempre, si chiederà il perché e questa volta è legittimo farlo.
È un’Italia senza divisioni come vorremmo che fosse, nell’assistenza alle persone affette dalle malattie come l’emofilia e la talassemia.
Ripercorreremo in questo 2015 tutto il nostro “stivale”, in un viaggio ideale alla conoscenza di tutti i Centri di cura, quelli veri ed anche, perchè no, quelli presunti tali.
Non faremo altro che informarci ed informare sugli argomenti che sono stati dibattuti al triennale di Firenze, per quanto riguarda l’emofilia e cioé la personalizzazione della cura e quanti ne avranno la capacità di farla, i nuovi concentrati ricombinanti e lo sviluppo degli inibitori.
Cercheremo di capire quanti e quali giovani medici sono o saranno a breve in grado di continuare o mantenere un livello di cura consolidato nel nostro Paese. Ci informeremo se le leggi sono rispettate e per leggi, ad esempio, parliamo di quella sull’auto-infusione, che è stato un passo decisivo affinché i pazienti emofilici potessero distaccarsi dalla struttura ospedaliera ed acquisire una libertà di movimenti, senza però dimenticare i controlli periodici e la documentazione precisa sull’effettuazione della terapia a domicilio.
Abbiamo volutamente parlato di auto-infusione perché tra i tanti siti web ci siamo imbattuti in “Katanews.it” Parola alla notizia”, un portale siciliano che alla voce sanità, riportava questo titolo: “Emofilia: il diritto di autoinfondersi”.
L’estensore dell’ articolo parla di una mail ricevuta e di un “mondo” che non conosce: l’emofilia.
“Un pomeriggio come tanti, iniziato in sordina. Una delle tante mail, lette di sfuggita, quasi senza interesse ed un problema che non avevi mai considerato diventa palese, tangibile.
Quella mail era l’ennesima richiesta d’aiuto, si richiedeva però un aiuto diverso dal solito.
Era la Paracelso di Milano e desiderava sapere se fossimo interessati ad organizzare corsi per autoinfusione, la parola che faceva da sfondo alla richiesta era: emofilia. (l’articolista descrive l’emofilia per i lettori – n.d.R.).
La mail chiedeva di poterci contattare per organizzare dei corsi di auto infusione, una pratica che autonomizza il soggetto e ne migliora la qualità della vita.
Un mondo sommerso che l’incontro di oggi con gran parte del direttivo dell’Associazione Siciliana Emofilici ha palesato.
«Io sono un padre e mio figlio l’infusione la vuole fatta solo da me, lei non può immaginare cosa significhi fare file all’ospedale, perdere giorni di scuola… lo ammetto, all’inizio ho fatto tanti errori, ma io mi autoinfondo e faccio infusioni a mio figlio perché la mia vita altrimenti sarebbe un inferno».
È solo una delle tante testimonianze, ma dà il senso di una necessità sentita come impellente.
Il problema è che questi corsi per apprendere le tecniche di autoinfusione, pratica diffusa in altre regioni e che normalmente trova riscontro in istituzioni pubbliche deputate ad erogare tale formazione, in Sicilia non esistono.
La macchina elefantiaca della burocrazia ha fagocitato l’intero meccanismo, lasciando queste persone sole a gestire tutto, responsabilità e pericoli inclusi.
È risaputo che la nostra è una regione a statuto speciale e la legge 30 Maggio 1983 all’art.2 dice che “le unità sanitarie che intendono organizzare i corsi di cui al precedente art. 1 devono avanzare domanda all’Assessorato regionale della sanità…. L’Assessore regionale per la sanità, al fine della concessione e dell’autorizzazione di cui al predetto art.1 è tenuto a verificare … l’idoneità dei requisiti dichiarati”.
La domanda è sempre la stessa: perché in Sicilia tutto tace?
Navigando su internet si trovano corsi in molte regioni italiane, che siano accreditati ECM o meno poco importa, convegni ed attività volte a favorire quello che dovrebbe essere un diritto conclamato, mentre dalle carte che l’Associazione mi ha lasciato da visionare si evince che a Palermo l’ultimo corso per auto infusione risale al settembre 1990. Di Catania non si fa menzione”.
Potremmo citarne altri di casi come questo, perché ancora in molte regioni, purtroppo non c’è un’assistenza adeguata e noi andremo a scoprirlo qual è il livello dell’assistenza, quella vera e quale ne sia il futuro.
E torniamo di nuovo all’immagine dell’Italia, questa volta quella della Giustizia.
L’articolo di Marco Calandrino ci lancia un messaggio nel quale parla sì di giustizia e di leggi, ma, questa volta ci dice: “prima viene la salute”.
Lo dice ormai da esperto di questioni legali, ma anche da esperto di emofilia.
Dopo tanti anni al nostro fianco e dopo aver messo al nostro servizio le sue conoscenze legali ora ci dice che in fondo poi, ciò che di più conta sono “la salute e la vita che non hanno prezzo”.
Brunello Mazzoli
Abbiamo dato la precedenza alle notizie sulle cause e sui risarcimenti, sempre in considerazione del fatto che le persone con patologie come l’emofilia e la talassemia oltre che i politrasfusi stanno vivendo questo stillicidio di ingiustizie che non trovano soluzione o almeno una soluzione che riconosca il loro diritto ad avere una vita come gli altri ed anche gli stessi diritti.
UNA RIFLESSIONE SUI RISARCIMENTI, LA VERITÀ STORICA, IL PRIMATO DELLA SALUTE
I SOLDI NON SONO TUTTO E LA GIUSTIZIA E’ ANCHE RICERCA DELLA VERITA’
Ho l’impressione che si corra il rischio di “leggere” la tragedia, la strage, di migliaia di persone infettate dai virus dell’epatite e dell’aids solo sotto il profilo dei risarcimenti.
Certo: i soldi rappresentano un ristoro, un riconoscimento anche morale del fatto che ci furono responsabilità, e di questi tempi sono un aiuto, possono servire a tante persone che sono in difficoltà proprio a causa dei problemi di salute che li affliggono.
Ed è per questo che noi avvocati non ci arrendiamo mai e percorriamo tutte le strade legali possibili per far ottenere qualcosa ai nostri assistiti.
Però non dobbiamo dimenticare la ricerca della verità storica: lasciare ai “posteri” la testimonianza di quanto accaduto, degli errori commessi, delle responsabilità di chi ha anteposto l’interesse alla salute e alla vita.
E questo per far sì che tragedie di tale portata non accadano mai più, affinché ci sia più attenzione, più scrupolo, perché si metta al primo posto, sempre e comunque, la dignità della persona umana.
Il processo penale di Napoli, che vede indagati alcuni responsabili della sanità italiana del tempo e di case farmaceutiche, può aiutare a fare luce su questa terribile pagina della sanità italiana, ma non basta, dobbiamo “fare memoria” di quanto accaduto in tanti modi: libri, video, etc.
Perché il presente e il futuro si costruiscono sul passato, su quanto accaduto in passato.
PRIMA VIENE LA SALUTE!
Sappiamo che la scienza medica sta facendo grandi progressi e si iniziano ad utilizzare nuovi farmaci contro l’epatite.
Provo un certo imbarazzo a ricevere quesiti (ripeto: da tante parti d’Italia) di chi è preoccupato che, guarendo o controllando meglio la patologia, ciò possa avere conseguenze su risarcimenti e indennizzi.
Non riporto qui le considerazioni legali in merito, perché variano da situazione a situazione, ma mi preme sottolineare la prima risposta che mi esce dalla testa e dal cuore: ragazzi, prima viene la salute!
Seguite i consigli dei medici, beneficiate dei nuovi farmaci, ed anzi lottate per poterli usare: prima viene la salute!
Pensate a chi ha perso la vita perché non esistevano cure efficaci: la salute e la vita non hanno prezzo.
Scusate questa mia riflessione ma, dopo oltre 15 anni di assistenza legale a tanti di voi, dopo tanti anni di collaborazione con “EX” e negli ultimi anni anche con la Federazione Nazionale delle Associazioni Emofilici, mi sento ormai parte di una grande famiglia, dalla quale ho imparato tanto e molti di voi mi sono stati d’esempio: lasciate ora che sia io ad offrirvi uno spunto di riflessione!
IL PROBLEMA DEL RISPETTO DELLA SENTENZA DA PARTE DEL NOSTRO PAESE
Ricordiamo che la CEDU con sentenza del 3 settembre 2013 aveva condannato lo Stato Italiano a pagare l’indennizzo integralmente rivalutato a tutti i beneficiari e a riconoscere gli “arretrati” sin dall’inizio, fin da quando uno aveva presentato la domanda per ottenere l’indennizzo (quindi senza alcuna limitazione dovuta alla prescrizione o ad altro).
La sentenza non fu impugnata, e quindi passò in giudicato (cioè è diventata definitiva): ora la Corte di Strasburgo vuole sapere se lo Stato Italiano, a distanza di un anno e mezzo, ha ottemperato oppure no.
C’è da dire che il Ministero della Salute ha provveduto a riconoscere a coloro che sono pagati dal MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze) l’indennizzo rivalutato, nonché gli “arretrati”, ma con la limitazione della prescrizione decennale: è evidente che ora il Ministero dovrà pagare an- che gli “arretrati” mancanti, e solo così avrà ottemperato alla sentenza CEDU.
Per coloro, invece, che ricevono l’indennizzo dalle Regioni e dalle Aziende Sanitarie Locali la situazione è ancora più problematica: il Ministero ha stanziato dei fondi per le Regioni a tale scopo, ma non mi risulta che siano iniziati i pagamenti degli “arretrati”, mentre per la corresponsione dell’indennizzo interamente rivalutato pare che le ultime tre regioni che ancora non si erano adeguate lo stiano facendo.
Siamo quindi ancora molto lontani da un pieno rispetto della sentenza della Corte di Strasburgo: siamo infatti ancora in mezzo al guado e, se non fosse stato per la CEDU, la situazione non si sarebbe neppure sbloccata (è vero: il Ministero sostiene di essersi attivato dopo la sentenza del- la Corte Costituzionale del 9 novembre 2011, precedente a quella della Corte di Strasburgo, ma la “coincidenza” vuole che solo dopo la sentenza CEDU, nell’autunno 2013, sia- no iniziati i pagamenti…).
LA TUTELA DEL DIRITTO DEL CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI NAZIONALISMO
Concludo con uno spunto di riflessione più generale: sono d’accordo con chi rivendica un livello minimo di sovranità a favore del proprio Stato, perché ogni Stato ha storia e tradizioni che sarebbe sbaglia- to disconoscere e sacrificare sull’altare di una super entità sovranazionale, e quindi ritengo che vada preservata una certa autonomia delle comunità nazionali e regionali, però nel campo del diritto è in- dubbio che il ruolo svolto dalle corti europee e internazionali rappresenta uno stimolo senza il quale noi cittadini saremmo meno tutelati.
Soprattutto noi italiani, visti i tempi e le contraddizioni della nostra Giustizia e con una Pubblica Amministrazione lenta e “ingessata” da mille vincoli.
RIVALUTAZIONE
Rispetto alla rivalutazione, il Ministero informa di aver relazionato alla Corte di Strasburgo e di attendere da essa indicazioni. Quanto ai finanziamenti da dare alle Regioni affinché paghino gli arretrati della rivalutazione dell’indennizzo, la registrazione del decreto è all’esame della Corte di Conti; dopo la pubblicazione il Ministero delle Finanze procede all’erogazione dei fondi. Il problema principale è rappresentato dalle regioni con piano di rientro (ad esempio Abruzzo e Calabria), per le quali la prima finanziaria va a sopperire il deficit del passato. In tutto lo stanziamento previsto è di 750 milioni di €, il primo anno 100 milioni, gli anni successivi gli importi saranno maggiori.
EQUA RIPARAZIONE DELLA TRANSAZIONE
Il decreto è stato presentato a luglio 2014 e ad agosto è diventato legge. La ratio (stimolata dalla Cedu) era chiudere il contenzioso.
L’equa riparazione è per tutti coloro che hanno fatto domanda di accesso alla transazione (con nesso causale, ascrivibilità e ricevibilità dell’istanza).
Non possono essere considerati i contagi da coniuge (mentre sì da madre a feto) e subiti dagli operatori sanitari.
E neppure gli eredi che hanno agito solo iure proprio.
FedEmo sostiene la tesi che la natura della lettera che il Ministero ha inviato rappresenti un’offerta, una proposta, che è perfezionata con l’accettazione. Se la ratio è chiudere il contenzioso, si chiede di non rigettare queste richieste, ma vedere quante sarebbero le persone interessate e rivalutare a quel punto la situazione.
Sono state mandate ai danneggiati 1379 lettere; 825 hanno accettato e finora sono state pagate quasi 500 pratiche. Le 300 pratiche che mancano verranno pagate entro novembre. Da ottobre partiranno le lettere per coloro che sono in 6° categoria. Poi seguiranno quelli di 7° e 8° categoria.
SENTENZE DA PAGARE
Il Ministero ha avviato un progetto di ristrutturazione interna volto all’arruolamento di personale, ora ridotto a poche unità, per poter lavorare più velocemente le pratiche per quanto riguarda equa riparazione, iter transattivo e pagamento sentenze.
FedEmo ha fatto presente che nella riunione di marzo 2014 il Ministero aveva chiesto agli avvocati di non fare giudizi di ottemperanza per non ingolfare ulteriormente le pratiche del Ministero e “promettendo” il pagamento spontaneo delle sentenze. In realtà ciò è avvenuto soltanto in minima parte.
Si è chiesto di conoscere una tempistica precisa in merito ai pagamenti per fornire agli associati delle date attendibili.
Il referente del Ministero ci ha informato che il progetto è già partito, ad ottobre insieme con il Direttore verrà fatto un primo report e una conseguente programmazione.
Se avessero meno ottemperanze da gestire, potrebbero lavorare sulle sentenze. Vogliono vedere con il report se riescono a tenere i ritmi.
Con il report possono capire quante sentenze riescono a lavorare entro dicembre 2015 e quante dopo quella data.
Sempre ad ottobre vorrebbero fare un incontro con le associazioni, indicando gli step da raggiungere.
SITUAZIONE FINANZIARIA GENERALE
I fondi per fare tutto ci sono, poiché con la legge 222 il Ministero ha definito una buona programmazione economica.
LA LEGGE PER L’“EQUA RIPARAZIONE”
In tutta fretta nell’estate 2014 viene approvato l’art.27 bis (legge n. 114) che prevede un’ “equa riparazione” (così definita sulla scorta della terminologia europea) di 100 mila euro: cifra inadeguata e, in certi casi, irrisoria (si pensi agli eredi di persone decedute), ma …. meglio che nulla.
Viene posta la condizione che, accettando tale somma, il danneggiato rinunci a proseguire, o intraprendere, ogni azione legale.
Il Ministero della Salute inizia a mandare delle lettere ai 7000 potenzialmente interessati, lettere che dal tenore e dalle parole usate appaiono come vere e proprie proposte (anche perché mandate direttamente ai danneggiati e non ai loro legali).
I primi a essere interpellati sono gli eredi dei deceduti: molti di loro accettano, rispediscono i moduli compilati, con firme autenticate, con l’indicazione del codice iban, seguendo le “istruzioni” date dal Ministero della Salute.
Lo Stato dice che per i familiari dei deceduti non è stato un danno
E qualche mese fa la “beffa”: il Ministero blocca i pagamenti agli eredi che hanno agito per il risarcimento del danno da loro stessi subito (iure proprio), sostenendo che la legge si riferisce solo agli eredi che agiscono per il risarcimento del danno subito dal congiunto quando era ancora in vita e che loro hanno “ereditato” (iure hereditatis).
In altre parole: i danneggiati da sangue infetto, per il Ministero della Salute, sono solo coloro che sono stati infettati, non i loro familiari: quindi vedersi morire un figlio o un papà o un marito non rappresenta un danno risarcibile con l’ “equa riparazione”.
Mi astengo da ogni commento.
Auspico solo un intervento istituzionale, del Governo e del Parlamento, affinché si risolva tale situazione: abbiamo informato diversi parlamentari e stiamo continuando l’opera di sensibilizzazione.
Lo dobbiamo ai tanti che vorrebbero che una tragedia così grande non finisse in questo modo.
Inoltre chiediamo che, almeno agli eredi, venga riconosciuta una somma più congrua dei 100 mila euro di cui all’art.27 bis.
Avv. Marco Calandrino
del Foro di Bologna
Un altro argomento che ha preso il sopravvento nel corso di questo 2015 è stato quello dei nuovi farmaci per la cura “definitiva” dell’epatite C nella quale sono coinvolte migliaia di persone.
Qui in questo servizio sono coinvolti rappresentanti dello Stato e delle Regioni.
I NUOVI FARMACI PER LA CURA DELL’EPATITE C
Il Ministro ha affermato che: “…non possiamo accettare che i farmaci proprio perché costosi siano dati seguendo criteri selettivi come succede in altri paesi”.
Concludendo il suo intervento ha anche dichiarato: “Dobbiamo far comprendere ai cittadini che stanno arrivando farmaci che salvano vita delle persone con grande impatto anche umano che però sono decisamente costosi”.
Ha così concluso: “Non posso accettare che i farmaci proprio perché costosi siano dati seguendo criteri selettivi come succede in altri paesi. Noi abbiamo una cultura che non dobbiamo perdere, che pone al centro l’uomo, e non posso accettare il fatto che i farmaci vengano dati con politiche selettive, solo ad alcuni malati. Il criterio di sussidiarietà resta fondamentale”.
Per questo il ministro Lorenzin “tratterà sul prezzo con le aziende”.
A questo ragionamento la Lorenzin ha legato la necessità di una riforma dell’AIFA che “così com’è strutturata non riesce a dare l’autorizzazione per l’immissione in commercio di un farmaco in tempi brevi”.
Ora, riportiamo questo articolo dal periodico “La Salute”, firmato da una senatrice e da un rappresentante della Regione Emilia Romagna.
La negoziazione effettuata dall’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco) con l’azienda che produce il primo dei nuovi farmaci per l’epatite C (il Sofosbuvir) è stata segretata. Una scelta apparentemente giustificata dalla opportunità di non interferire con le negoziazioni in corso in altri paesi europei ma che di fatto urta contro la diffusa richiesta di trasparenza nell’operato della pubblica amministrazione.
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Uno dei temi sui quali il Governo ha preannunciato un intervento normativo in sede di legge di stabilità per il 2015 (attualmente in discussione in Parlamento) è quello dei farmaci innovativi ad alto costo, in particolare dei nuovi farmaci per l’epatite C in grado di modificare significativamente la storia naturale dellamalattia.
Nei prossimi anni, a questi quattro farmaci potrebbero aggiungersene altri, ampliando così ulteriormente le opportunità terapeutiche ma anche la competizione fra i diversi prodotti.
Purtroppo molti dei pazienti da trattare con maggiore urgenza necessitano, per un trattamento ottimale e costo-efficace, di due farmaci antivirali somministrati in associazione; la norma in corso di predisposizione non può pertanto concentrarsi solo sul primo farmaco in arrivo (il Sofosbuvir), ma deve necessariamente considerare una prospettiva più ampia, sia nel breve sia nel medio periodo.
Il tema dei farmaci innovativi ad alto costo pone problemi economici, clinici, organizzativi ed etici fino ad oggi in gran parte trascurati, nonostante i numerosi solleciti.
Problemi ai quali l’emendamento presentato dal Governo lo scorso 13 dicembre (vedi Risorse) tenta di dare una prima risposta, con modalità peraltro provvisorie (valide solo per gli anni 2015 e 2016), che da un lato testimoniano la complessità della questione e dall’altro confermano la posatezza con la quale il Governo sta procedendo.
Non va dimenticato tuttavia che si tratta di terapie che possono salvare la vita di persone la cui salute è gravemente pregiudicata, di fronte alle quali qualunque ritardo dovrebbe essere considerato inaccettabile.
L’emendamento del Governo si riferisce molto opportunamente a tutti i farmaci innovativi (superando l’idea emersa in un primo momento di una norma solo per il primo “superfarmaco” per l’epatite C) e offre un primo timido spiraglio di luce ai tanti pazienti in attesa dei nuovi farmaci.
Un provvedimento molto atteso anche dalle Regioni, che più volte hanno inutilmente sollecitato il Governo (la prima lettera della Conferenza delle Regioni è del marzo 2014 – vedi Risorse) a istituire un tavolo tecnico e a predisporre linee guida per pianificare l’introduzione delle nuove terapie.
Un intervento apprezzabile quindi, anche se si limita ad affrontare l’emergenza, mentre sarebbe stato più opportuno avviare una revisione organica della disciplina sui farmaci innovativi, in vista dei tanti medicinali che nei prossimi anni saranno immessi in commercio con effetti dirompenti sulla spesa farmaceutica.
Con riguardo alle risorse necessarie per garantire i trattamenti, l’emendamento prevede la costituzione di un fondo presso il Ministero della salute destinato a concorrere al rimborso alle regioni delle spese sostenute per i farmaci innovativi: un fondo a destinazione vincolata quindi, gestito direttamente dal Ministero e in gran parte alimentato da risorse del Fondo sanitario nazionale, ovvero di risorse già destinate alle regioni per l’erogazione dei livelli di assistenza.
L’EROGAZIONE DEI FONDI PER I LIVELLI DI ASSISTENZA
Tale proposta appare discutibile sotto tre profili.
- Primo perché ripropone fondi a destinazione vincolata nonostante la normativa vigente preveda che le regioni debbano essere vincolate al raggiungimento di obiettivi di assistenza e non a obiettivi di spesa.
- Secondo perché centralizza fondi destinati alle regioni, riservando così al livello centrale il potere decisionale su una materia che richiede uniformità nella garanzia dell’assistenza e non nella disponibilità di fondi.
- Terzo perché istituisce il fondo sottraendo (per 400 milioni nel 2015 e per 500 nel 2016) risorse già destinate ad altre finalità, riducendo così ulteriormente i finanziamenti disponibili per tutti gli altri interventi assistenziali e imponendo nuove restrizioni alla sanità pubblica.
Un precedente molto preoccupante, anche in relazione alle dimensioni che in futuro potrebbe assumere la spesa per i farmaci innovativi.
Le dimensioni del fondo (500 milioni per il 2015) potrebbero essere considerate relativamente adeguate tenuto conto dei tempi di attivazione dei percorsi terapeutici, anche se la relazione tecnica del Governo parla di una stima dell’AIFA di un fabbisogno di 750 milioni all’anno per un solo farmaco.
Se così fosse le regioni spenderebbero 750 milioni ma se ne vedrebbero rimborsare dal Ministero solo 500.
Dovrebbe quindi scattare il meccanismo del pay back, con le modalità già in vigore, al quale si dovrebbe aggiungere il nuovo ripiano richiesto alle aziende che producono farmaci innovativi.
Il condizionale è d’obbligo perché la norma non è lineare come dovrebbe essere trattando una materia complessa e onerosa, ma soprattutto perché non è chiaro se il Ministero si attende realisticamente una spesa superiore o inferiore ai 500 milioni del fondo.
La congruità del fondo rispetto al fabbisogno annuale è d’altro canto difficilmente valutabile, posto che gli esiti della negoziazione effettuata dall’Aifa con l’azienda che produce il primo dei nuovi farmaci per l’epatite C (il sofosbuvir) è stata segretata.
Una scelta apparentemente giustificata dalla opportunità di non interferire con le negoziazioni in corso in altri paesi europei ma che di fatto urta contro la diffusa richiesta di trasparenza nell’operato della pubblica amministrazione.
Si può rinunciare alla trasparenza in cambio di (presunti o reali) vantaggi per il mercato interno?
Si può rinunciare alla leale collaborazione fra paesi (tutti i paesi dovrebbero essere interessati a negoziare i farmaci condividendo le informazioni) di fronte a un unico produttore monopolista?
La disponibilità di farmaci importanti come quelli innovativi in grado di salvare vite umane può dipendere dalla capacità di negoziazione e dalle informazioni possedute dal singolo paese?
La prassi di negoziare prezzi solo in parte esplicitamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale meriterebbe una attenta riflessione, che nonostante la presidenza italiana del semestre europeo non è stata avviata, rinunciando così a importanti opportunità di risparmio e di trasparenza.
Nerina Dirindin, Senatore
Anna Maria Marata, Regione Emilia Romagna
Ci siamo poi occupati, attraverso l’attività di un’associazione di pazienti, di far conoscere le iniziative del TIGET nei campi della ricerca. Ma a noi interessavano specialmente le patologie che seguiamo e cioè la talassemia e l’emofilia. Questo primo servizio appunto fa riferimento ad un progetto che si sta svolgendo da due anni.
IL COINVOLGIMENTO CONSAPEVOLE DEL PAZIENTE TALASSEMICO NELLA CURA
Nel 2012 l’Associazione ATDL (Associazione Talassemici Drepanocitici Lombardi) promuoveva un progetto in-formativo Percorsi di Empowerment che aveva come punto di partenza il riconoscimento del ruolo attivo e del valore dell’esperienza della persona affetta da talassemia e il suo coinvolgimento consapevole quale elemento determinante nella configurazione della cura e per la sua qualità di vita.
Attraverso due tappe iniziali, dedicate, la prima a Il Paziente Esperto, la seconda a La Relazione di cura, come una cura in équipe, si era iniziato un percorso, innanzitutto con i pazienti, ma anche aperto ai caregiver e ai professionisti, atto a in-formarsi e consolidar-si come pazienti esperti, soggetti di diritti e di cura.
Ma le persone affette da talassemia, dispongono di una qualità di vita, inimmaginabile fino a pochi decenni fa, e di opzioni di cura che si profilano sempre più innovative, grazie al loro stesso essere stati o essere soggetti coinvolti in sperimentazioni: tra il 2013 e il 2014 i Percorsi di Empowerment entrano di conseguenza in una fase avanzata, per in-formarsi e consolidar-si come attori e soggetti di ricerca e per lavorare insieme con i professionisti della salute nella loro veste di ricercatori, in un momento molto importante per la comunità dei talassemici sia per lo sviluppo di nuovi farmaci dedicati che per la svolta che potrebbe rappresentare la terapia genica.
GLI OBIETTIVI DEGLI INCONTRI
Gli iniziali 3 incontri previsti, che come in una scala musicale, sempre con i pazienti al centro e centrali in ogni laboratorio, si prefiggevano:
- un progressivo coinvolgimento di tutti gli attori fondamentali nello sviluppo della ricerca, pazienti, caregiver e i concreti ricercatori responsabili degli studi clinici, in corso, oggetto di discussione e confronto;
- un lavoro di analisi dei consensi e dei percorsi informati implicati, in un ottica di buona pratica, inseriti nel processo decisionale di coinvolgimento nel biobanking o nello studio specifico (in particolare lo studio clinico Ferrokin e il protocollo sperimentale di Terapia genica TIGET – GSK).
Ciascuno incontro si proponeva di offrire sia l’abc per partecipare con serenità a ricerche che possono fare la differenza per ciascuno, ma soprattutto una consapevolezza crescente di come:
– muoversi e valutare la svolta cellulare, biologica della ricerca e il suo impatto possibile nella configurazione della propria cura, sulla propria qualità della vita, – riconoscersi parte attiva, protagonista di questo processo, fianco a fianco e in dialogo con i ricercatori in una prospettiva di crescita comune e di contributo costruttivo, oltre che formativo, su processi sperimentali in corso dove ognuno è interlocutore necessario, parte in gioco.
L’intero percorso si così è arricchito di ulteriori due tappe, su richiesta dei pazienti stessi.
Da ottobre a giugno si è così snodato un intenso percorso, che si è articolato in 5 laboratori interattivi e in molti incontri intermedi tra Associazione ATDL, ricercatori, Centro Anemie Congenite e Fondazione Telethon per l’individuazione dei materiali e la condivisione dei metodi che hanno reso incisivo e utile il confronto diretto poi in aula.
LE TAPPE – 26 ottobre 2013
“Dal reclutamento alla partecipazione: non più cavie ma parte attiva per un ricerca sicura e di qualità”.
L’uso dei materiali biologici umani per scopi scientifici è non solo uno dei motori attuali della ricerca più innovativa, ma a tutti gli effetti una porta di entrata alla ricerca, di partecipazione, seppur indiretta, per ciascun cittadino. In particolare per una persona affetta da talassemia: il prelievo di sangue-materiali biologici (biobanking) come trampolino della ricerca si rivela una grande occasione e uno snodo concreto
- per comprendere come si sta sviluppando ora la ricerca e come mi riguarda,
- per far propri i diritti esigibili implicati
- per ragionare insieme sulla buona pratica del consenso informato a partire da un’esperienza che prima o poi si presenta alla maggior parte delle persone affette da talassemia e che si riflette, per la qualità dei dati sensibili e delle ricerche biologiche, non solo sul singolo ma sulla sua famiglia.
Attraverso una didattica interattiva, laboratori tra pazienti, caregiver e rappresentanti dell’Associazione, siamo nella prima tappa del percorso entrati nel cuore della ricerca e della sperimentazione che possono essermi proposte
- approfondendo il metodo scientifico (cosa significa sperimentare con esseri umani, quando proprio perché si rispettano le regole e i diritti la ricerca è di qualità)
- esplorando il processo di informazione (consenso informato) alla ricerca con materiali biologici come primo passaggio utile e concreto per riconoscere il consenso informato come processo di informazione e di coinvolgimento attivo, in cui la qualità del disegno della ricerca deve andare a braccetto con i diritti per di rende possibile uno studio di ricerca con i propri materiali biologici, e per esteso di chi decide di partecipare ad uno studio clinico/sperimentazione.
Domande centrali del laboratorio sono state:
- Che cosa accade quando grazie al mio prelievo si inizia un processo di biobanking?
- Perché mi riguarda? Perché riguarda la mia famiglia?
- Perché il campione di sangue conservato è utile solo se messo in relazione ai miei dati clinici?
- Quali sono i miei diritti in gioco?
- A cosa rinuncio se preferisco non sapere, se non mi informo?
- Perché il consenso informato è un mio diritto e mi apre un mare di possibilità?
- Come viene tutelata la mia privacy?
- Come vengono protetti i miei dati sensibili (i dati che mi possono identificare ed esporre ad una discriminazione)?
- Quando posso chiedere i risultati degli studi che sono stati fatti con il mio sangue?
15 marzo 2014
Tutto quello che avrei voluto sapere sulla ricerca clinica, sul metodo scientifico e il suo linguaggio … e non ho mai osato chiedere.
Alla luce della prima tappa, e della difficoltà rilevata tra molti partecipanti di sapere collocare gli studi, in cui si è stati coinvolti, nel percorso di validazione scientifica di una molecola-farmaco o di una nuova terapia biologica-genetica-cellulare, attraverso un dibattito accesso tra facilitatore-bioeticista, pazienti e famigliari, si sono approfondite in modo molto analitico e dettagliato:
- Le fasi precliniche di una ricerca,
- le 4 fasi di ricerca con essere umani (fasi I -II-II-IV),
- come si sviluppa in sicurezza e nel rispetto dei miei diritti e della mia tutela un farmaco, una terapia innovativa
- i movimenti per i diritti dei pazienti, la bioetica e la Convenzione di Oviedo: non più cavie ma persone e soggetti in gioco. Come i pazienti sono sempre più protagonisti della propria storia, con libertà di scelta, qualità di vita e voce in capitolo nella ricerca e nella cura.
In questa seconda tappa, il consenso informato dello studio di fase II Ferrokin è stato utilissimo “materiale di laboratorio” per: - comprendere come in una fase II i dati relativi alla sicurezza sono dati che si basano fondamentalmente sul modello animale,
- verificare la corrispondenza tra la ricerca proposta e le informazioni condivise nel consenso informato
- riconoscere la concretezza e l’importanza dei diritti esigibili in gioco.
11 aprile 2014 – Perché il consenso informato mi riguarda?
Spesso il consenso informato è percepito come un atto formale e non come il processo di comprensione e inclusione che dall’inizio 0alla fine della sperimentazione agevola e tutela la scelta propria di partecipazione alla ricerca, che ci riconosce parte attiva, protagonista della ricerca, fianco a fianco con il ricercatore.
Si è cercato di capire insieme:
- Come cambia la mia qualità di vita e la mia partecipazione in sicurezza alla ricerca se sono informato e consapevole?
- Perché il consenso informato tutela i miei diritti: di sapere, di non sapere, di partecipare
- Di non partecipare
- Di ritirarmi quando voglio
- Di informare chi voglio
- Di avere accesso ai miei dati e ai risultati dello studio
- Di essere assicurato
- Di sapere sempre a chi rivolgermi
- Come la buona pratica del consenso informato cambia la relazione con i clinici e con i ricercatori?
9 maggio 2014
Percorsi informativi e scelte in gioco in uno studio clinico che coinvolge pazienti affetti da talassemia.
Come essere INFORMATI, CONSAPEVOLI dei propri diritti e PROTAGONISTI in uno studio clinico “classico” farmacologico.
Laboratorio interattivo di discussione e confronto tra pazienti, soci e Cappellini, Graziadei, Poggiali, clinici ricercatori del Centro di Anemie Congenite, sugli snodi conoscitivi-decisionali (disegno, valutazione, sviluppo, monitoraggio) di uno studio clinico attuale (Ferrokin) ed esplicitando la struttura informativa dell’intero percorso di sperimentazione.
- Qual è lo scopo dello studio?
- Perché i ricercatori ritengono che il trattamento proposto possa essere utile?
- Il trattamento è già stato sperimentato?
- Se sì, che risultati hanno dato gli studi precedenti?
- Perché i criteri di inclusione e di esclusione sono dirimenti per me?
- Gli eventi avversi attesi sono proporzionati ai benefici attesi?
- Cosa comporta partecipare allo studio?
- Quali informazioni è mio diritto ricevere prima di scegliere se partecipare allo studio?
- Perché essere informato del disegno dello studio, della fase sperimentale in cui si colloca … è fondamentale per la mia sicurezza?
- Quali sono i miei diritti in gioco? Posso ritirarmi in ogni momento dallo studio? Posso non partecipare? Posso avere accessi ai risultati?
giugno 2014
Percorsi informativi e scelte in gioco nella costruzione dello studio clinico di terapia genica che coinvolgerà pazienti affetti da talassemia
Come essere INFORMATI, CONSAPEVOLI dei propri diritti e PROTAGONISTI in vista di uno studio clinico INNOVATIVO di terapia genica.
Laboratorio interattivo di discussione e confronto tra pazienti, soci e Marktel, tra i principali ricercatori dello studio:
“STUDIO DI FASE 1/2 DI VALUTAZIONE DI SICUREZZA ED EFFICACIA DELLA SOMMINISTRAZIONE DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE AUTOLOGHE GENETICAMENTE MODIFICATE CON IL VETTORE LENTIVIRALE GLOBE CHE CODIFICA PER IL GENE UMANO DELLA BETA GLOBINA PER IL TRATTAMENTO DI PAZIENTI AFFETTI DA BETA TALASSEMIA TRASFUSIONE DIPENDENTE” e Ferrari, ricercatrice TIGET e direttrice scientifica dello studio, e alcuni rappresentanti della Fondazione Telethon, Ambrosini, Daturi, Zatti, sugli s-nodi informativi e decisionali in vista dello studio clinico di terapia genica con pazienti talassemici. In particolare:
- In cosa si differenzia il vettore GLOBE da quanti sperimentati sinora?
- Quale è il disegno dello studio?
- Quali sono i criteri di inclusione per candidarsi a partecipare?
- Quali sono i rischi cui espone?
- Che impegno comporta e che impatto ha sulla qualità di vita del paziente coinvolto?
- Perché la sicurezza nella sperimentazione di una terapia cellulare è ancora più centrale che in uno studio sperimentale classico?
- A che punto è l’iter valutativo dello studio stesso da parte dell’Agenzia Italiana del farmaco e dell’Istituto Superiore di Sanità, obbligatorio e necessario prima di avviare la sperimentazione con gli esseri umani?
- Come saranno accessibili i dati e i risultati della sperimentazione, per evitare false aspettative e rispettare il mio diritto di informazione?
La documentazione dell’attività della Fondazione Paracelso è quasi ad ogni numero anche di questo 2015. Illustriamo in questo servizio, tre progetti.
I PROGETTI CPÌ ED HOPE
La famiglia e il suo benessere diventano centrali quando arriva un figlio emofilico: ci si trova ad affrontare psicologicamente un problema che durerà tutta la vita, e a risolvere praticamente una serie di difficoltà a cui prima non ci si pensava.
Per questi motivi e per venire in aiuto alle famiglie, Fondazione Paracelso ha specificamente avviato due progetti dedicati a loro: il progetto Cpì e quello Hope.
Brevemente ricordiamo di cosa si tratta.
Con il progetto Cpì ci siano dati come obiettivo quello di aiutare le famiglie dei bambini emofilici, affiancando ai genitori una mediatrice famigliare che aiuti la famiglia a superare il difficile momento dell’accettazione della patologia e l’accompagni nei primi anni di vita del bambino. Il progetto è supervisionato dalla dottoressa Cristina Mazzini, psicologa e psicoterapeuta, responsabile di una Unità operativa disabilità adulti dell’ULSS di Padova e docente presso la Facoltà di Medicina di Padova.
Il progetto è realizzato con il sostegno di Pfizer.
Il progetto Hope ha invece il compito di sostenere le famiglie con bambini affetti da emofilia da 0 a 12 anni attraverso gruppi di condivisione e confronto tra genitori sotto la supervisione di una formatrice professionista, in grado di far emergere le esperienze e i vissuti emotivi di ognuno, partendo dal presupposto che tutti sono in grado di compiere azioni per il proprio e l’altrui benessere.
Come stanno andando questi due progetti? I progetti stanno andando bene! Molto bene!
Cpì si sta ampliando e stiamo avendo richieste da molte parti d’Italia.
A oggi è operativo in 11 città – Bari, Catania, Cesena, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Padova, Perugia, Roma e Torino – dove lavorano altrettante mediatrici famigliari. Inoltre, a Milano si è reso necessario coinvolgere anche due mediatrici familiari in grado di parlare albanese ed egiziano, da affiancare a famiglie appena giunte nel nostro Paese.
Dall’inizio del progetto nel 2013, le nostre mediatrici hanno affiancato le famiglie di 44 bambini e 11 bambine.
Il progetto Hope, che si avvale della supervisione di un comitato scientifico composto da esponenti di Fondazione Paracelso, FedEmo, clinici e docenti universitari, è ormai stato avviato in 6 città: Milano, Firenze, Roma, Napoli, Reggio Calabria, Catania.
IL PROGETTO SERIOUS GAME
Il progetto Serious games è un progetto modulare che prevede la costruzione di un “gioco” interattivo attraverso cui i pazienti affetti da emofilia possono svolgere degli esercizi di fisioterapia a casa davanti a un semplice schermo televisivo.
Gli esercizi sono definiti dal fisioterapista e dal medico, ed è possibile sia un’autovalutazione diretta del paziente sul corretto svolgimento dell’esercizio sia un controllo a distanza del personale medico che valuta e corregge il percorso di fisioterapia.
Il progetto è particolarmente indicato per pazienti piccoli, in modo da far svolgere loro gli esercizi a casa, in un ambiente protetto, assieme ai genitori, o per persone con problemi deambulatori per i quali raggiungere periodicamente una struttura esterna per svolgere gli esercizi diventa a volte faticoso.
A che punto siamo?
Il Dipartimento di informatica dell’Università degli Studi di Milano ha terminato la costruzione del software dedicato ai pazienti emofilici. Il lavoro è stato condotto in stretta sinergia con Elena Boccalandro e Gianluigi pasta del Policlinico di Milano, e ha permesso di realizzare un’importante interfaccia per il medico che può intervenire sui giochi/esercizi in maniera autonoma e completa, selezionando, paziente per paziente, modalità e tempi di gioco diversi.
Il prossimo passo è di testare il software e condurre un primo studio clinico pilota con un piccolo gruppo di pazienti residenti nell’area lombarda, da effettuarsi presso il Centro Emofilia del Policlinico per affinare le funzioni dell’applicazione e la messa a punto delle componenti tecnologiche.
La selezione dei pazienti risponde a motivi di natura organizzativa e garantirà la disponibilità di maggiori dati anamnestici in quanto pazienti seguiti dal Centro Emofilia di via Pace.
In questo modo sarà possibile, entro pochi mesi, avere una valutazione complessiva del progetto e avviare la fase di utilizzo del software su larga scala – possibilmente nazionale.
Ricordiamo che l’obiettivo è di dare in comodato ai pazienti a casa tutta l’attrezzatura (televisore, computer, pedana, telecomandi, sensore Kinect) per far svolgere gli esercizi comodamente nella propria abitazione.
“THIRD ANNUAL GLOBAL HAEMOPHILIA ADVOCACY LEADERSHIP SUMMIT”
Ho partecipato, tra il 21 e il 23 gennaio, assieme a Giuseppe Mazza, ad un incontro denso di idee e nuove informazioni.
Si è parlato di advocacy, che era il tema principale verso varie lectures (con cui veniva fornito il materiale teorico) ed esercizi pratici (in cui si metteva, appunto, in pratica le informazioni appena ricevute), è stata fornita una panoramica utilissima a chi, come me, si avventura per la prima volta nel mondo dell’advocacy, e una preziosa occasione di migliorarsi a chi ha già esperienza e già se ne è occupato.
Si è anche parlato di HTA (Health Technology Assessment) e di chi si occupa di questa attività. Entrando nei dettagli, sono state forniti i diversi punti di vista di chi porta avanti l’attività di HTA (entità nazionali e buyers e agenzie indipendenti o ancora associazioni) mostrando le varie modalità di approccio alla disciplina.
Si è parlato tanto anche di surveys e statistiche, importante metodo per raccogliere dati da usare nell’attività di advocacy delle associazioni. Si è parlato soprattutto di PROBE, uno sviluppo di PRO, sviluppata da un’advisory board d’eccellenza e che si trova ora nella sua fase di perfezionamento.
Si tratta di una survey designata per essere alla portata di ogni associazione pazienti, in modo da poter raccogliere e gestire facilmente i dati necessari alla propria attività di advocacy.
Sono stati richiesti contatti per eventualmente portare avanti il progetto PROBE anche in Italia. Ci siamo resi disponibili ad essere contattati nei prossimi tre mesi.
Si tratta di un questionario per cui si impiegano non più di quindici minuti e l’obiettivo che si proponeva, quando veniva presentato, durante il summit, era di 50 questionari per ogni stato.
Credo che non ci saranno problemi ad ottenere molti più questionari da poter fornire allo staff di PROBE.
Al meeting hanno partecipato rappresentanti da tutto il mondo, ed in un ambiente così stimolante sono state discusse tante nuove idee e presi tanti nuovi contatti per iniziare nuove attività in futuro.
Enrico Ferri Grazzi
Dopo aver letto questa notizia sui quotidiani e nelle agenzie di stampa, ci era stato richiesto di parlarne, ma noi abbiamo messo in guardia dai facili entusiasmi.
La “storia” c’insegna ad essere prudenti… molto prudenti…..
EMOFILIA: NUOVI SVILUPPI PER LA TERAPIA GENICA ALL’OSPEDALE SAN RAFFAELE
La strategia clinica dell’Istituto Telethon-San Raffaele per la terapia genica permette di introdurre geni “funzionanti” e “corretti” nelle cellule dei pazienti affetti da malattie genetiche. Dalla terapia genica arriva una nuova speranza per la lotta all’emofilia.
Si tratta di una tecnica che agisce alla “base” della malattia, utilizzando dei vettori lentivirali in grado di ottenere geni “funzionanti” da introdurre nelle cellule dei pazienti nei quali le versioni “difettose” portano allo sviluppo di gravi patologie. Risultati promettenti sono già stati raggiunti per le malattie genetiche del sistema immunitario e del sangue.
Un accordo per la ricerca
Il Tiget vuole estendere la tecnica della “correzione” dei geni difettosi attraverso la terapia genica anche per contrastare le cause dell’emofilia di tipo A e di tipo B.
Grazie a un accordo siglato con la biotech americana Biogen Idec, la ricerca potrà verificare le applicazioni cliniche con l’obiettivo dichiarato di ottenere una terapia definitiva per gli emofiliaci realizzata con un’unica somministrazione.
Nel caso dell’emofilia la terapia genica mira a introdurre versioni funzionanti dei geni in grado di produrre le proteine coinvolte nel processo di coagulazione che sono carenti in questi pazienti.
La tecnica – La collaborazione si basa sulla terapia genica sviluppata al Tiget con vettori lentivirali, ottenuti dalla “ingegnerizzazione” del virus HIV per trasportare nelle cellule dei pazienti versioni funzionanti di quei geni che quando difettosi sono responsabili di specifiche malattie.
Finora la terapia genica è stata effettuata sulle cellule staminali prelevate dal midollo osseo del paziente stesso, che una volta corrette sono state poi reintrodotte nell’organismo.
La strategia per l’emofilia ideata dal Tiget prevede che il vettore lentivirale sia somministrato direttamente nell’organismo e diretto alle cellule del fegato.
Se si dimostrerà sicuro ed efficace, questo trattamento potrebbe in futuro garantire un beneficio terapeutico stabile e a lungo termine per le persone affette da emofilia.
Un altro argomento che ci ha visti in prima fila per darne un’informazione corretta è stato quello della terapia del dolore.
Qui ne parliamo con “Cittadinanzaattiva”.
IL MIGLIORAMENTO DEL TRATTAMENTO PER IL DOLORE
IN-DOLORE: 46 gli ospedali impegnati con Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato nel miglioramento del trattamento del dolore.
Su www.cittadinanzattiva.it le strutture coinvolte e l’attuale livello di attenzione al dolore.
C’è ancora molto da fare per il trattamento del dolore nei bambini e negli anziani, così come nei Pronto Soccorso: carente l’informazione ai pazienti su quanto disposto dalla legge 38/10 e i diritti che ne derivano.
E spesso le strutture non formano adeguatamente il personale sanitario.
Il dolore viene registrato quasi sempre in cartella clinica e trattato tempestivamente con terapie farmacologiche, ma in un caso su due non ne viene rilevata l’intensità con strumenti ad hoc.
Sono questi alcuni del risultati del programma IN-DOLORE con cui il Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, grazie al sostegno non condizionato di Grünenthal, ha coinvolto 46 ospedali di 15 regioni, 214 reparti e 711 persone ricoverate per migliorare il grado di attenzione sul diritto ad evitare le sofferenze e il dolore non necessari sancito dalla Carta Europea dei diritti del malato, e ripreso nello spirito dalla L. 38/10.
Sul sito di Cittadinanzattiva, al link http://www.cittadinanzattiva.it/in-dolore è possibile trovare le strutture coinvolte e l’attuale livello di attenzione al trattamento del dolore, registrato nei singoli ospedali e reparti.
Negli atrii degli ospedali coinvolti sarà presente un poster con i “risultati” raggiunti dalla struttura.
Maggiori informazioni sulla metodologia utilizzata sono disponibili a questo link.
“È oggi più che mai indispensabile avere informazioni attendibili sul rispetto dei diritti dei cittadini in merito alla terapia del dolore, anche perché l’attuale sistema di finanziamento per l’attuazione della Legge 38/2010 è basato sulla presentazione di “Progetti Obiettivo” da parte delle Regioni e sull’assegnazione delle risorse da parte del Ministero.
Si tratta di 100 milioni di euro l’anno ed i meccanismi di verifica e controllo sugli stessi progetti sono troppo deboli. Questo sistema va rivisto completamente a partire dal riconoscimento di una forma precisa di rimborsabilità delle prestazioni di terapia del dolore”. Queste le dichiarazioni di Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva.
“IN-DOLORE indica molto chiaramente quali siano le priorità d’intervento: le Istituzioni nazionali e quelle regionali devono puntare sulle attività di informazione e sensibilizzazione rivolte a cittadini e professionisti della sanità, sui diritti sanciti dalla Legge 38/2010 e sull’importanza della loro applicazione”, ha continuato Aceti, “oltre che aumentare il livello di attenzione verso anziani e bambini per dare voce a chi non ha voce e curare il passaggio dall’ospedale al domicilio del paziente, vero anello debole del Sistema. Infine è il momento di inserire il parto indolore nei Livelli Essenziali di Assistenza, oggetto di aggiornamento proprio in queste settimane”.
Alcuni risultati
È presente un apposito spazio sul trattamento del dolore in cartella clinica in 8 casi su 10; meno frequente (solo 63%) la presenza di spazi per registrare il dolore per persone con difficoltà a verbalizzare (bambini, persone con deficit cognitivi).
I comitati ospedale territorio senza dolore, previsti dalla L. 38/10, sono presenti nel 70% dei casi.
Sul versante della informazione ai pazienti, emerge le informazioni sul sito web aziendale sono presenti in 7 casi su 10, ma non sempre facilmente “rintracciabili”; il 60% degli Ospedali non mette a disposizione materiale informativo su ciò che offre l’azienda in relazione al dolore.
Soltanto il 24,9% dei degenti intervistati dichiara di essere stato informato sui suoi diritti in merito al dolore.
Dalle interviste ai pazienti, è emerso che all’87.7% è stato chiesto se provavano dolore; soltanto al 45.2% è stato chiesto di esprimere l’intensità del dolore attraverso un apposito strumento; nel 16.4% dei casi il dolore non è stato creduto o è stato sminuito.
Nel 95.2% di casi il dolore segnalato dal paziente è stato trattato, e il 91.8% dei rispondenti dichiara che l’intervento è stato tempestivo e il trattamento nella stragrande maggioranza è stato con farmaci (97.9%).
Nel 28% dei casi non esiste la procedura che preveda la consegna dei farmaci necessari a proseguire la terapia analgesica al momento della dimissione.
La formazione del personale sulla gestione del dolore è un aspetto da migliorare tanto per i medici quanto per gli infermieri (hanno raggiunto il 75% del personale formato solo 4 strutture su 10).
In ambito pediatrico, c’è ancora molto da fare: in una struttura su 3 mancano protocolli per procedure non farmacologiche e in 1 su 5 mancano protocolli di riduzione del dolore da parte degli infermieri mediante farmaci ad uso locale.
In caso di intervento chirurgico, il 69% delle strutture stabilisce da protocollo che i genitori possono stare con il bambino nella pre-anestesia e al risveglio. Per il 64.4% dei minori sottoposti a procedure invasive, sono state usate tecniche per ridurre l’ansia/disagio da dolore.
Solo nel 50% dei casi di procedure diagnostiche invasive (ad es. prelievo con ago cannula), sono stati usati farmaci ad uso locale, quali ad es. pomate a base di lidocaina.
Altrettanto critico il trattamento del dolore nell’anziano: mancano protocolli specifici nel 76% dei reparti di medicina interna o generale monitorati.
Passando ai singoli reparti esaminati, emerge che in ginecologia-ostetricia, circa la metà delle strutture attua la parto-analgesia, con anestesista dedicato tutti i giorni per 24 h; nei reparti di chirurgia ortopedica si usano strumenti per la rilevazione e valutazione periodica del dolore, ma solo 2 strutture su 10 hanno provveduto a formare almeno il 90% del personale.
Nei Pronto Soccorso la riduzione del dolore non è così scontata: solo nel 52% dei casi esistono protocolli o procedure per ridurlo durante manovre o interventi dolorosi, come le suture o la rimozione di corpi estranei.
TRIAL CLINICO PER LA TERAPIA GENICA DELLA TALASSEMIA
Domenica 8 febbraio 2015 si è svolto presso l’Istituto San Raffaele di Milano l’incontro per la presentazione del trial clinico di terapia genica per la thalassemia condotto dall’equipe della professoressa Giuliana Ferrari, Coordinatrice dell’Attività di ricerca del TIGET, della quale fanno parte anche i prof. Aiuti e Ciceri e la dott. Marktel e si avvarrà della collaborazione della prof. Cappellini per il processo di selezione dei pazienti.
Questo studio, in attesa del definitivo consenso dell’AIFA, sostenuto economicamente dalla Fondazione Telethon, viene presentato in prima istanza ai pazienti al termine di un percorso di empowerment che ha visto la partecipazione diretta di una rappresentanza degli stessi nella stesura del consenso informato.
La giornata è stata organizzata in collaborazione con UNITED, la Federazione Italiana delle Associazioni, e con la guida della bioeticista Sara Casati che ha moderato l’incontro cercando di semplificare la comprensione dei temi discussi per i molti pazienti presenti.
IL TRASFERIMENTO DEL MATERIALE GENETICO MEDIANTE UN VETTORE
Giuliana Ferrari ha chiarito in apertura che la terapia genica è una procedura che consente di trasferire del materiale genetico in cellule somatiche mediante l’uso di un trasportatore, il vettore, che il più delle volte è rappresentato da un virus, con lo scopo di “sostituire un gene malato” con uno funzionante; nel nostro caso il materiale genetico è rappresentato dal gene della beta-globina e le cellule trasformate sono le cellule staminali (Haematopoietic Stem Cells) ematopoietiche del paziente.
In pratica, queste cellule richiamate dal midollo al sangue periferico, per mezzo di un’apposita terapia, vengono prelevate, selezionate per un marcatore che le identifica (CD34+), modificate in laboratorio con il gene corretto per produrre emoglobina e re-infuse dopo aver fatto spazio nel midollo con un trattamento chemioterapico.
Questo progetto di terapia genica per la talassemia è iniziato molti anni fa con lo sviluppo del vettore che è rappresentato dal virus HIV1, della famiglia dei Lentivirus ma conserva solo il 10% del materiale genetico del virus, cioè solo quello che serve per mantenere la capacità a penetrare nelle cellule.
I geni “pericolosi” sono sostituiti dal gene che si vuole veicolare unitamente ad alcune sequenze necessarie al suo corretto funzionamento.
Il vettore è stato chiamato GLOBE per sottolineare il fatto che contribuisce ad esprimere la catena beta-globinica.
Rispetto agli altri studi in corso, non esistono sostanziali differenze tra questo vettore e quelli utilizzati nelle altre sperimentazioni, quello che cambia è la presenza di alcuni elementi regolatori che non influiscono sull’espressione finale del gene.
Ciò che invece può fare la differenza tra i vari protocolli è rappresentato dagli standard di qualità con cui viene preparato il vettore, il numero di cellule modificate ed infuse, il tipo di mieloablazione utilizzata ed il metodo di infusione delle cellule modificate.
La prof.ssa Ferrari ha assicurato che nel costruire questo studio hanno impiegato tutte le informazioni provenienti dai trials in atto, ma anche dalle altre esperienze maturate al San Raffaele sia in materia di trapianti che di terapia genica e che ogni passaggio è stato accuratamente testato per confermare l’assenza di tossicità e di genesi tumorale.
Questo studio, di fase 1/2, serve proprio ad avere certezze sulla sicurezza e la non tossicità dell’impianto.
Il prof. Aiuti, coordinatore dell’area clinica e unità di ricerca della terapia genica del San Raffaele, ha ripercorso 15 anni di esperienza del S.Raffaele in tema di terapia genica riferita a patologie come ADA-SCID e la sindrome di Whiskott-Aldrich i cui pazienti sono stati trattati con successo molti anni fa con tecniche molto più rudimentali di quelle attualmente disponibili.
La dott.ssa Marktel, project leader della Fondazione San Raffaele, ha illustrato l’iter dello studio presso gli enti regolatori, in particolare per quanto riguarda il coinvolgimento dei bambini che sembra essere più problematico rispetto alle altre patologie trattate, in quanto ad oggi, le terapie per la cura della talassemia consentono un vita normale ed un inserimento sociale ottimale.
European Medicine Agency (EMA) ha raccomandato al team del TIGET di iniziare prima con pazienti adulti per valutare efficacia e tossicità del protocollo usato, l’AIFA ha invece proposto di iniziare con l’adulto e a seguire i bambini dagli 8 ai 17 anni e solo dopo attente valutazioni, passare a trattare bambini dai 3 ai 7 anni.
Attualmente l’AIFA ha richiesto ulteriori delucidazioni sul protocollo prima del consenso definitivo al trial.
Il dottor Ciceri, direttore del Servizio di Immunoematologia del San Raffaele, ha spiegato che il disegno dello studio contempla in totale 10 pazienti: 3 con età sopra i 18 anni, 3 con età compresa tra 8 e 17 anni e 4 con età compresa tra 3 e 7 anni.
La fase di mobilitazione delle staminali sarà fatta per i primi due gruppi con l’uso di due farmaci molto specifici per questo compito (Plerixafor e G- CSF) e la raccolta delle cellule avverrà con un prelievo del sangue periferico, mentre il terzo gruppo (bambini da 3 a 7 anni) verrà sottoposto ad un prelievo diretto del midollo perché i piccoli presentano una concentrazione midollare di staminali molto più alta rispetto agli adulti, evitando così i rischi della terapia per la mobilitazione.
Seguirà la selezione delle cellule staminali CD34+ e l’infezione con il vettore modificato.
Una parte delle staminali prelevate saranno congelate e tenute da parte ed utilizzate in caso di mancato attecchimento delle cellule re-infuse. Una sorta di back-up.
La fase di condizionamento chemioterapico è necessaria per fare spazio alle nuove cellule che poi si annideranno nel midollo e daranno nuovamente origine a tutte le cellule della serie ematopoietica.
Si utilizzeranno farmaci diversi a seconda della differenza d’età dei pazienti (Treosulfan con Thiotepa per i più grandi solo Busulfan nei più piccoli) e la mieloablazione indotta sarà pressoché totale.
Al termine della procedura seguirà un follow-up scadenzato fino ai 24 mesi dall’infusione che poi si protrarrà fino a 8 anni dal trapianto con visite periodiche annuali. Questa fase è di fondamentale importanza per il paziente che viene costantemente monitorato nella sua salute, ma anche per i clinici e ricercatori che potranno ricavare notizie preziose sull’efficacia e sicurezza del protocollo di terapia genica messo in atto.
Diversamente da ogni altro studio clinico in cui il paziente può rinunciare a proseguire in qualunque momento, in questo trial si arriverà ad una fase in cui non sarà più possibile tornare indietro, per questo motivo i criteri di inclusione saranno piuttosto restrittivi: essere talassemici major trasfusione dipendenti, godere di buona salute, questo implica quindi nessun problema cardiaco, lieve o moderato sovraccarico epatico, ferritina bassa, buona funzionalità epatica, renale, HIV e HCV negativi o per lo meno HCV RNA negativi, per garantire una certa sicurezza agli operatori che tratteranno le cellule del paziente.
Fondamentale è avere una buona aderenza alla terapia per affrontare bene la fase di follow-up che sarà molto intensa, soprattutto nei primi due anni.
La prof.ssa Cappellini ha specificato che il suo ruolo sarà proprio quello di valutare la presenza di tutti i requisiti di ammissione al protocollo e di essere chiara con il paziente ogni qualvolta sarà necessario indicando pro e contro del trattamento.
Le fasi dello studio prevedono 5 passaggi.
- Inclusione: un colloquio personalizzato tra i clinici e il paziente volto a chiarire tutti gli aspetti clinici e pratici del protocollo e per valutare anche l’aspetto motivazionale del candidato che si conclude con la firma del consenso informato.
- Screening: è la fase che deve verificare il rispetto di tutti i criteri di inclusione e l’assenza dei criteri di esclusione; il candidato verrà sottoposto ad una visita accurata, esami ematochimici con prelievo venoso e un prelievo del midollo per escludere lesioni precancerose in atto.
Dovranno essere fatti anche esami strumentali come ecografie e risonanze. - Baseline: Se il candidato paziente supera lo screening e viene reputato idoneo, si fanno ulteriori indagini diagnostiche per fotografare lo stato di salute del paziente nel momento immediatamente prima del trattamento.
- Trattamento: Breve ricovero di circa 7 giorni necessario per effettuare il trattamento farmacologico di mobilitazione delle staminali e conseguente raccolta. In questa occasione al paziente viene posizionato un catetere centrale per il tempo del ricovero, al termine il paziente può tornare a casa.
Le cellule vengono preparate e testate per la qualità alla MOLMED S.P.A, presente con i suoi laboratori all’interno del San Raffaele.
Dopo circa un mese il paziente ritorna al San Raffaele per il ricovero in camera sterile dove verrà sottoposto al trattamento di chemioterapia; dopo 1 giorno di riposo, vengono infuse per via intraossea le staminali modificate.
Si predilige la via intraossea d’infusione per evitare la dispersione delle cellule a livello polmonare.
Il paziente rimarrà nella stanza sterile almeno per 2-3 settimane dopo infusione fino a quando la conta di globuli bianche e piastrine si sarà alzata; verrà quindi dimesso, ma non ritornerà a casa, bensì alloggerà per almeno un altro mese nei pressi dell’ospedale in un alloggio messo a disposizione dalla Fondazione Telethon. - Follow-up: Inizia subito dopo il trattamento, anche questa è una fase molto impegnativa per il paziente che verrà sottoposto regolarmente a esami ematochimici, prelievi del midollo (almeno 4) necessari per valutare l’attecchimento delle staminali infuse.
Il follow-up ufficiale termina dopo 2 anni dall’infusione delle cellule modificate, ma in realtà il paziente continua ad essere seguito per altri 6 anni almeno una volta all’anno dai clinici dello studio per un totale di 8 anni.
Le altre figure che completano il team del trial sono una psicologa sempre a disposizione del paziente e della sua famiglia per qualunque necessità e l’infermiera di ricerca, la sig.ra Miriam Casiraghi del TIGET.
Questa figura è stata istituita con l’avvio dei trials di terapia genica ed è una figura essenziale nell’organizzazione generale della permanenza del soggetto al San Raffaele inserito nello studio.
L’infermiera di ricerca accompagna il paziente ad ogni esame strumentale, è con lui in ogni tappa, lo istruisce sul modo di comportarsi nelle diverse fase del protocollo, si assicura che venga fatto tutto come deve essere fatto e nei tempi previsti; è presente per ogni dubbio, domanda o richiesta e organizza insieme al paziente gli appuntamenti per il follow-up oltre che organizzare logisticamente la permanenza del soggetto e di chi lo accompagna. Ha poi raccontato la sua esperienza di terapia genica Ivano Argiolas contribuendo a dare un significato più concreto alle molte curiosità degli intervenuti.
A fine lavori Marco Bianchi e Tommasina Iorno, soddisfatti per l’ampia partecipazione di pazienti, ringraziano le associazioni intervenute da tutta Italia, sottolineando che il lavoro dell’ATDL e di UNITED insieme ha dimostrato che il mondo delle Associazioni dei talassemici e drepanocitici può unirsi attorno ad obiettivi condivisi.
Ringraziano Telethon, la struttura del Tiget–San Raffaele per aver fornito una possibilità a tutte le associazioni di comprendere in modo chiaro, con un lessico comprensibile, il percorso che gli eventuali candidati dovranno sostenere per sottoporsi a questo trial, di cui si sono chiaramente intesi gli obiettivi e che si sono potuti costruire in parte anche con il coinvolgimento dei pazienti stessi.
Alessandra Mangolini e Loris Brunetta
A CHE PUNTO È LA STRADA CHE CONDUCE ALLA CURA DEFINITIVA PER I TALASSEMICI?
Per chi si occupa di talassemia e, più in generale, di emoglobinopatie, gli ultimi diciotto mesi hanno rappresentato un momento di svolta assai significativo sulla strada della cura definitiva di queste patologie.
Nel recente passato abbiamo già affrontato il discorso sul trapianto genico seguendo gli sviluppi del trial clinico di Michel Sadelain allo Sloan Kettering di New York, anche attraverso l’esperienza diretta di uno dei suoi protagonisti, ma adesso torniamo sull’argomento per riflettere assieme su quanto si è concretamente raggiunto in questi ultimi mesi.
Abbiamo imparato a familiarizzare con termini come “vettore”, il sistema per veicolare il gene sano nella cellula staminale ematopoietica, come “condizionamento”, la terapia per creare nel midollo lo spazio necessario all’impianto delle nuove staminali, tutti termini che teniamo a mente e che ci serviranno più avanti.
Alla conferenza Pan-Euroepa di Atene promossa dalla TIF, lo scorso mese di novembre, è stata diffusa la notizia di un secondo studio, dopo quello di New York, sul trapianto genico, studio che ha un paradigma completamente diverso rispetto al suo precedente in quanto sviluppato da una azienda commerciale, che detiene quindi un interesse economico nel promuovere il suo prodotto.
Secondo i dati diffusi alla conferenza annuale della American Society of Hematology (ASH), questo nuovo studio clinico, che coinvolge gli Stati Uniti e la Francia, si dimostra assai interessante per diversi aspetti: innanzitutto sembra consentire il raggiungimento dell’indipendenza trasfusionale in un tempo molto breve, intorno ai tre mesi; secondariamente è stato testato anche su pazienti affetti da drepanocitosi, almeno un paio sono già stati trattati a Parigi nel braccio europeo del trial.
A differenza dello studio newyorkese, in questo caso i dati sono stati immediatamente divulgati, anche se alcuni aspetti devono essere ancora attentamente valutati, per una ragione di mero interesse commerciale che non esistono per il trial omologo di Sadelain.
Al di là della rapidità con la quale si è data pubblica conoscenza di questo studio, l’azienda che lo sta promuovendo (Bluebird.bio) assicura che la sicurezza dei pazienti e la tollerabilità del trattamento siano le loro priorità.
I motivi addotti per spiegare i sorprendenti risultati raggiunti sono attribuibili al livello di purezza del vettore utilizzato ed al condizionamento molto aggressivo, rispetto a quello di New York, che usano per demolire il midollo del paziente. Dallo scorso mese di febbraio, inoltre, anche l’Italia sdogana il suo primo studio di terapia genica per la talassemia grazie al gruppo di ricerca guidato dalla professoressa Giuliana Ferrari al Tiget-San Raffaele di Milano, trial sponsorizzato da Telethon.
Il percorso del trial è stato illustrato ai pazienti durante un meeting tenutosi a Milano qualche giorno ed ha una particolarità che subito balza agli occhi: i pazienti sono stati parte integrante del lavoro avendo collaborato alla stesura del consenso informato che dovrà essere firmato da coloro i quali saranno candidati a questo studio.
Questo che può sembrare un dettaglio di poco conto ha invece un’importanza rilevante perché corrisponde esattamente con ciò che le nuove normative europee prevedono rispetto alla partecipazione dei pazienti ai processi decisionali che li riguardano.
Quindi, un calcio alla vecchia configurazione del “paziente al centro” come obiettivo finale di un processo deciso da altri, ma piuttosto un nuovo paradigma con il “paziente a fianco” del medico e partecipe consapevole e decisivo riguardo al processo.
Senza addentrarci nei dettagli tecnici della procedura, che resta quella ormai consolidata dall’esperienza, sarà sufficiente dire che lo studio prevede di coinvolgere 10 pazienti in totale, inizialmente 3 adulti ed in fasi successive, 3 ragazzi di età compresa fra 8 e 17 anni quindi i bambini dai 3 ai 7 anni.
Una nota di colore è costituita dal nome con il quale è stato battezzato il vettore italiano, “Globe”, che evoca la forma del pianeta sul quale viviamo ma anche la sintesi della parola “emoglobina” che promette di produrre.
Non è inutile evidenziare i molti aspetti positivi che riguardano lo studio italiano, primo fra tutti la consolidata esperienza del San Raffaele in campo di terapia genica, applicata ad altre patologie, che ha dato risultati stupefacenti in termine di successi conseguiti.
Certamente il fatto di accodarsi ad altri studi in corso, dei quali abbiamo detto, consente di usufruire dell’esperienza specifica accumulata in questi mesi per meglio capire come e dove agire per garantire risultati migliori.
Non va trascurato poi l’aspetto relativo ai costi da sostenere per la terapia che non sono solamente quelli economici ma anche di natura psicologica e sociale per chi si candida ad affrontare questo trattamento.
Da questo punto di vista vivere l’esperienza all’interno di un ospedale italiano senza barriere linguistiche e potendo contare sulla vicinanza di famiglia ed amici è un dettaglio non da poco per superare le difficoltà cui inevitabilmente si andrà incontro.
Prima di cantare vittoria sarà necessario comprovare l’effettiva praticabilità di questa tecnica innovativa in ognuno di questi studi che sono promettenti ma che sarà necessario valutare in termini di rischio-beneficio e di sostenibilità economica.
Abbiamo già avuto modo di ricordare che la vera innovazione è quella che diventa disponibile per tutti e non quella fruibile solo da un’elite, quindi aspettiamo di toccare con mano i risultati che si raggiungeranno e costatarne la loro durata nel tempo.
La sensazione, come dicevamo all’inizio, è quella di aver imboccato una strada dalla quale ben difficilmente si tornerà indietro.
È stato un percorso lungo e difficile, spesso impervio e costellato da imprevisti ma infine di successo e risponde a quello che fino a poco tempo fa costituiva una vera e propria utopia.
Ci sentiamo di dire che la fine del percorso oggi s’intravveda solo, perché molti aspetti andranno ancora chiariti e probabilmente molte cose che oggi sembrano aver raggiunto un margine accettabile di rischio, insito in ogni procedura medica, troveranno, sperabilmente, soluzioni migliori.
Non possiamo non riconoscere che i veri beneficiari possano essere le generazioni dei nostri ventenni, e quelle successive che, grazie ai passi da gigante compiuti nella terapia tradizionale, arriveranno pronti e, si spera, in buona forma a varcare la linea del traguardo con la storia.
Loris Brunetta
“IMPAZIENTI DI CAMBIARE” ALLA RICERCA DI UNA NUOVA MEDICINA
In occasione della Giornata Mondiale dell’Emofilia si è svolto a Milano un incontro organizzato dalla Fondazione Paracelso.
Senza togliere alcun merito a nessuno di coloro che hanno organizzato le due giornate, riteniamo che l’argomento sviluppato a Milano debba avere l’apertura di questo numero del giornale.
Proprio attraverso la relazione di apertura tenuta da Andrea Buzzi ripercorriamo a grandi linee il tema trattato.
Abbiamo chiesto a Ivan Cavicchi di ragionare sulla medicina e la malattia, perché per capire quale sistema sanitario ci serve dobbiamo prima comprendere qual è l’oggetto, definire l’idea di malattia, immaginare la medicina più rispondente alle necessità di quell’idea e quindi su questa base costruire, strutturare, organizzare i servizi.
Nerina Dirindin ha poi affrontato il tema della sostenibilità, che va misurata non solo sull’economia ma anche sull’etica. L’indagine conoscitiva di cui è stata relatrice nella Commissione Igiene e Sanità del Senato conclude che “il sistema è sostenibile quanto noi vogliamo che lo sia” e sottolinea che il punto di partenza devono essere i bisogni delle persone.
E adesso è il momento di parlare del paziente che, al pari della malattia e della medicina, non possiamo dare per scontato.
Il paziente si può definire come quella persona cui capita di incorrere in una malattia in un contesto in cui esistano strutture sanitarie e professionisti in grado di riconoscere la sua condizione come una patologia.
Diversamente, abbiamo un malato o forse solo una persona che sta male.
C’è una malattia, dunque.
La prima questione è naturalmente in quale parte del mondo: a seconda del paese in cui viviamo essere malati può essere infatti molto diverso.
Noi siamo in Italia, e fin qui tutto bene.
Ma la definizione di malattia è in sé problematica, costituita com’è da diversi elementi.
Proviamo a elencarne qualcuno:
- la malattia è in primo luogo una disfunzione organica, che a sua volta può essere soggettivamente percepita o biologicamente rilevata (un raffreddore è più fastidioso dell’epatite C);
- dipende però fortemente dal riconoscimento di quella disfunzione organica nella nosografia ufficiale. La terminologia medica settecentesca parlava di flussione per indicare quelli che oggi sono descritti come stati infiammatori, disturbi pressori etc. Nel linguaggio popolare si parlava un tempo di “accidente secco” per ciò che oggi viene riconosciuto come infarto, ictus etc. Se poi parliamo di malattia psichica ci addentriamo in un mare vasto: la follia è stata per secoli una definizione-contenitore che raccoglieva le più diverse forme di devianza dai comportamenti considerati socialmente accettabili;
- dipende anche dalla cornice socio-culturale di normalità sotto il profilo funzionale e persino sotto quello estetico: presso alcune popolazioni tribali gli sciamani erano quelli che noi chiamiamo disabili, così come nel mondo omerico spesso gli indovini sono ciechi. Le donne dipinte da Rubens, cellulitiche e dalle forme abbondanti, oggi si preoccuperebbero della prova costume. Nella Germania del XVII secolo evidentemente la cellulite, che la medicina odierna denomina panniculopatia edemato-fibro-sclerotica, non era ritenuta una malattia e nemmeno un problema estetico.
In sostanza, la malattia si definisce in relazione al sapere scientifico specialistico, al contesto e alle sue aspettative sociali e culturali di salute e, tutt’altro che da ultimo, alla percezione che la persona interessata ha della propria condizione, nonché degli eventuali limiti ai propri desideri e alle aspettative di funzionamento e integrazione sociale imposti dalla malattia.
La definizione di malattia è poi ovviamente legata a doppio filo a quella di salute, che nel 1948 l’OMS ha così descritto: “Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Questa formulazione ha il merito di opporsi alla visione dualistica dell’individuo (corpo-psiche), ma dall’altra parte medicalizza la società, ci decreta tutti malati: chi può dire di godere di uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale?
Una visione più ampia è rappresentata dal modello biopsicosociale elaborato dallo psichiatra americano George Engel nel 1977, secondo cui ogni condizione di salute o malattia è la conseguenza dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali. L’altro modello forte, quello biomedico, ignora invece i fattori sociali e psicologici, così come l’importanza della relazione tra medico e paziente nei processi di diagnosi e terapia, elementi che invece influenzano notevolmente gli esiti terapeutici.
Negli ultimi 50 anni tuttavia la medicina ha imboccato la via dello scientismo, accantonando sdegnosamente la propria anima umanista. Forte dei successi nella capacità di affrontare malattie un tempo prive di trattamento, a un certo punto la medicina ha preso a rappresentarsi come una scienza esatta, unica deputata a occuparsi di salute. Stando al modello biopsicosociale, alla medicina è invece affidata la cura delle malattie, cosa in sé non sempre è sufficiente a produrre benessere nella persona.
L’articolazione sistematica del modello biomedico è quella che si chiama medicina basata sulle prove di efficacia (o EBM, Evidence Based Medicine), che ha come proprio strumento principe lo studio clinico randomizzato controllato. Indiscutibile merito dell’EBM è aver sottratto scelte e strategie terapeutiche a un approccio esperienziale invece che sperimentale, riducendo i rischi derivanti da una casistica ristretta e da valutazioni individuali.
Nel corso degli anni però sono emerse le debolezze dello studio clinico, fra cui i tanti elementi distorsivi (nel disegno, nella conduzione e nella gestione dei dati) che possono orientarne i risultati. È chiaro che non si può tornare alla medicina pre-EBM, ma altrettanto chiaro è che gli studi clinici non sono la macchina della verità.
Per il paziente, che con l’occasione diventa soggetto arruolato e viene assegnato a una coorte, vi è poi la questione dell’ulteriore spersonalizzazione: firmare il consenso informato, spesso una frettolosa formalità, è l’unica azione che lo coinvolga come persona; a parte ciò, in uno studio clinico il paziente riveste interesse solo in quanto materiale biologico.
L’autorappresentazione della medicina come angelo sterminatore delle malattie ha prodotto l’aspettativa di uno stato di salute perfetto, e il diritto alla salute si è trasformato in diritto alla guarigione, cosa che a sua volta ha contribuito non poco a far nascere la medicina difensiva, con le note conseguenze per i malati e per il sistema sanitario (anche sotto il profilo dei costi).
E il paziente? Nella malattia il paziente scopre la propria irrilevanza nel momento in cui esperisce in maniera più acuta la propria vulnerabilità.
In un sistema che mette al centro la figura del medico relegando in posizioni subalterne e ancillari gli altri professionisti sanitari, il paziente si ritrova emarginato, mentre il medico intreccia un rapporto adulterino (perché si svolge alle sue spalle) con la sua malattia, che come ogni adulterio si avvale di adeguati artifici verbali: il linguaggio esoterico con cui il medico parla con altri della mia malattia, un linguaggio tecnicizzato e inaccessibile, riduce il paziente a un personaggio senza ruolo, inascoltato nel suo discorso sulla propria malattia, un discorso privo di oggettività scientifica ma pieno di preziosa soggettività.
Fra le iniziative che cercano di aumentare consapevolezza e informazione dei pazienti, segnalo EUPATI (European Patients’ Academy on Therapeutic Innovation) che promuove percorsi formativi per consentire ai pazienti una partecipazione competente nei Comitati etici e financo alla stesura e conduzione dei trial clinici.
Nel quadro di una medicina che valorizza la malattia mettendo in secondo piano il malato, consapevolezza e informazione sono una necessità, ma varrebbe la pena di notare che ciò comporta una professionalizzazione del paziente e ne richiede ancora una volta la dislocazione in territori impervi e sconosciuti, andando paradossalmente in direzione contraria agli sforzi di ricondurre il paziente al centro della scena.
Portatore di un sapere esperienziale (è questo il significato di “paziente esperto”) e di un sentire che, in nome del modello biopsicosociale, va tenuto in considerazione nella relazione di cura, toltosi il pigiama, il paziente rivela il sottostante abito del cives, del cittadino, e parla ai diversi interlocutori (medici, industria, istituzioni) come portatore di legittimo interesse.
Il paziente può essere un elemento di riequilibrio a tutti i livelli, in primis la ricostruzione dell’alleanza con il medico, depositario di imprescindibili e complessi saperi tecnici. E ai medici, andando oltre il patient empowerment, noi proponiamo il physician empowerment che richiami lo specialista nell’orbita del paziente, liberandolo da indebite ingerenze dei regolatori e dell’industria nelle scelte terapeutiche.
Alle aziende, che ormai riconoscono nella responsabilità sociale d’impresa un valore, diciamo che il punto di partenza è consentire l’accesso ai farmaci attraverso una politica dei prezzi che tenga conto dei contesti finanziari e dei bisogni di salute a cui i loro prodotti possono rispondere.
Una politica di prezzi che contenga il costo della singola confezione o del ciclo di trattamento non implica necessariamente una riduzione dei ricavi e dei profitti: l’ampliamento del numero di pazienti in terapia significherebbe un incremento nelle vendite, oltre che un sicuro miglioramento della reputazione di Big Pharma, oggi non brillantissima.
Alle istituzioni chiediamo coinvolgimento nelle sedi consultive e in quelle deliberative.
È una domanda etica, che risponde all’imperativo di rendere partecipi delle decisioni coloro su cui quelle decisioni si scaricano, e allo stesso tempo una proposta gestionale: il legittimo interesse dei pazienti può bilanciare gli altri poderosi e non sempre ben orientati interessi in gioco.
C’è infatti una lettura più inquietante rispetto a quella che fa discendere le politiche di restrizione e privatizzazione dei servizi da una gestione miope che guarda al risparmio immediato trascurando i maggiori esborsi futuri provocati da lacune assistenziali.
Nel 1987 un documento della Banca Mondiale indicava le linee da seguire per la ristrutturazione dei servizi sanitari nei Paesi in via di sviluppo:
- Far pagare gli utenti (ticket)
- Favorire la privatizzazione
- Promuovere programmi assicurativi
- Delocalizzare i servizi sanitari
I primi tre punti sono ormai una realtà anche nel nostro Paese, dove una parziale delocalizzazione dei servizi sanitari è già avvenuta a causa delle differenze assistenziali nelle diverse regioni. Ma c’è di peggio: nel giugno 2014 Wikileaks ha reso pubblici documenti riservatissimi sul TiSA (Trade in Services Agreement): un accordo fra 50 Stati (compresi gli USA e la UE al completo) che prevede la liberalizzazione e la delocalizzazione dei servizi sanitari.
Le conseguenze di una simile scelta sarebbero enormi e catastrofiche.
Nel 2013 il governo Cameron ha approvato una riforma sanitaria che costituisce una massiccia privatizzazione del sistema. La British Medical Association (l’associazione che raccoglie tutti i medici UK) ne chiede l’abrogazione definendola “un terribile errore” e denunciandone le insostenibili diseguaglianze fra cittadini.
Le sole voci a difesa della privatizzazione sono quelle dei portatori di interessi economici e dei politici che l’hanno attuata rispondendo, si direbbe, più a quei portatori di interesse che non ai cittadini.
Medici, accademici, opinionisti definiscono invece la riforma “una mutazione genetica del servizio sanitario”: “Nel settore pubblico i medici cercano di avere finanziamenti adeguati per rispondere in maniera adeguata ai bisogni dei loro pazienti. L’obiettivo è la cura e i soldi sono un mezzo per raggiungerlo.
Nel settore privato per contro la compagnia si pone l’obiettivo di fare soldi, la priorità è quella di distribuire i dividendi ai soci.”
Non c’è niente di men che lecito nel porsi come obiettivo il profitto, ma quel profitto deve essere armonizzato con i bisogni dei cittadini, le risorse del Paese e del sistema sanitario.
Giovanni Berlinguer scriveva nel 2003: “Il soggetto principale della Riforma sanitaria è stato in grande misura il popolo, insieme agli specialisti, e l’oggetto fondamentale è stata la salute in sé, insieme alle cure e insieme alla dignità della persona e ai diritti del corpo e della mente. […]
Poi, la signora Thatcher vinse le elezioni in Inghilterra e due anni dopo vinse negli USA Ronald Reagan, due conservatori rivoluzionari, che insieme agli economisti della scuola neo-liberal avviarono la demolizione di molti diritti, anche nel campo della Sanità e del welfare. I risultati ottenuti (accrescimento delle disuguaglianze e selezione nell’accesso alle cure) sono sotto gli occhi di tutti”.
C’è chi si è battuto per conquistare ciò che abbiamo oggi. Oggi a noi spetta batterci per conservarlo.
Citato in apertura di intervento da Andrea Buzzi, il Prof. Ivan Cavicchi dell’Università Tor Vergata di Roma, autore di diversi libri su questi temi, ha parlato sulla necessità di ripensare la medicina, ha affrontato tre argomenti a suo parere, fondamentali:
“Prima di tutto – ha affermato testualmente – ripensare all’idea di scienza e per fare questo, modificare la figura del paziente che diventa sempre più esigente, e intervenire sul livello economico, che oggi condiziona troppo le prassi e le necessità. La società richiede una medicina sempre più personalizzata, mentre la sanità, che gestisce e organizza la medicina, sta diventando sempre più impersonale”.
Quindi il mutamento che è un movimento che altera lo stato delle cose, un processo che è agito da ciò che subentra, che sopravviene e che è immanente alla realtà.
La regressione che non è esattamente un ritornare indietro, ma un restare fermi mentre tutto muta, al punto da essere spiazzati da ciò che diventa altro; si tratta di un’idea in cui sono implicite asimmetria, antinomia, non congruenza, scollatura, contraddizione.
Il cambiamento, una proposta che si mette in pista per rimediare agli effetti negativi della regressione e che, con varie accezioni, ruota intorno all’idea di ripensamento.
La medicina è un sistema pratico-concettuale investito costantemente da diversi tipi di mutamento che, se non ripensati adeguatamente, accumulano nel tempo gradi crescenti di regressività e di inadeguatezza, al di là della fisiologica tolleranza di un sistema.
Trattando questi argomenti in modo molto chiaro, per intenderci da docente universitario e da scrittore, ha concluso in questo modo.
“I mutamenti che ho rimarcato chiamano in causa il modo, la forma, l’organizzazione delle regole della conoscenza scientifica e le prassi della medicina che ne conseguono.
La mia scelta è di dare per scontato che la conoscenza scientifica della medicina sia quella descritta nei trattati e discussa nei congressi. Del resto, i mutamenti che ho preso in considerazione non pongono alla medicina un problema di contenuti nozionali, perché è intuitivo che essi dipendono dagli sviluppi della ricerca scientifica, ma pongono un problema di epistemologie e di prassi (per epistemologia intendo le regole, i modi, i princìpi e le forme della conoscenza, per prassi gli atti e i comportamenti dei medici). I miei ragionamenti si riferiscono perciò a una conoscenza medico-scientifica disponibile sul cui uso dobbiamo interrogarci.
Oggi come potremmo usare la medicina? Il quesito si basa sul presupposto che le conoscenze mediche, come più o meno tutte le conoscenze, si potrebbero usare in modi diversi, ma a condizione di ridefinirne le epistemologie.
Nel dibattito sulla scienza del nostro tempo, le conoscenze e le epistemologie che sono alla base della scienza sono state variamente definite in termini di paradigmi, programmi di ricerca, tradizioni di ricerca, stampi, matrici e altro ancora. Io preferisco parlare, a proposito di medicina, semplicemente di canone, ovvero un sistema concettuale ortodosso nel quale le conoscenze scientifiche sono organizzate in una certa epistemologia e sono convalidate dalla comunità scientifica dei medici. Per ortodossia, in generale, si intende la retta credenza, la conformità alle verità scientifiche che dirigono l’opera del medico. Il canone è un sistema di criteri epistemologici atti a giudicare e decidere ciò che va fatto e ciò che non va fatto, ciò che è vero e ciò che è falso. Esso serve a dirigere l’opera del medico, obbligandolo ad agire conformemente a dei princìpi fondativi, ad attenersi a dei postulati. L’ortodossia, tuttavia, nei confronti dei mutamenti si mostra come una regola ambivalente: è il canone dalle cui regole non si può prescindere ma, proprio per questo e in quanto tale, è anche un sistema di regole che resiste al cambiamento. L’ortodossia ha inoltre una funzione apologetica, nel senso che il suo fine è quello di difendere le verità acquisite del canone contro le dottrine avversarie. Per esempio, gli argomenti che la medicina ufficiale adotta contro le medicine non convenzionali, le terapie estemporanee, i rimedi miracolosi sono, ancor prima che scientifici, in larga parte apologetici. Il punto, però, non è difendere ma contro-dimostrare; e contro-dimostrare è qualcosa di completamente diverso dall’apologia. L’ortodossia tende a opporsi al cambiamento anche perché, nell’ambito di una continua competizione di idee, essa deve amministrare il proprio canone e difenderlo nel modo più vantaggioso, soprattutto nei confronti dell’esercizio pratico della disciplina.
L’ortodossia tutela i legittimi sistemi di interessi che quel canone sancisce e che rischiano con il cambiamento di essere messi in discussione.
Oggi la medicina dovrebbe costituire il grande oggetto di una grande riforma… questa riforma, per semplificare e schematizzare, riguarda i rapporti tra contenuti e contenitori.
Tutte le politiche sanitarie da trent’anni a questa parte riguardano i contenitori (servizi, ospedali, aziende, territori, contratti, programmi ecc.), ma è mai possibile cambiare i contenitori in invarianza di contenuti?
Cioè, è mai possibile che si possa riordinare, razionalizzare, razionare, riorganizzare la sanità a medicina invariante quando intorno a noi tutto cambia?”
“Bisogna andare verso la sostenibilità del Sistema Sanitario – ha spiegato la Senatrice Nerina Dirindin – intesa non come scusa per smantellare il sistema.
Il problema oggi non è la sostenibilità economica ma quella politica e culturale. Da numerosi studi internazionali il nostro Sistema Sanitario Nazionale è considerato il più equo e il più economico tra i Paesi più avanzati.
Perché smantellarlo?
È importante riordinare il sistema in maniera coordinata, in particolare da parte delle Regioni”.
La senatrice Nerina Dirindin, membro della XII Commissione Igiene e Sanità, ha affermato come la recente indagine conoscitiva del Senato della Repubblica, dal titolo “La sostenibilità del Servizio sanitario nazionale con particolare riferimento alla garanzia dei principi di universalità, solidarietà ed equità” presentata a fine febbraio 2015 con un Rapporto intermedio dai relatori D’Ambrosio Lettieri e la stessa Dirindin, ribadisca un concetto che già la Commissione Romanov, nel Rapporto relativo al sistema sanitario canadese aveva sostenuto nel 2002, ovvero che “non vi è uno standard su quanto un paese dovrebbe spendere per la salute: un sistema sanitario è tanto sostenibile quanto un paese vuole che lo sia”.
Non comprendere la complessità del sistema sanitario, non tenere in debita considerazione che si tratta di uno strumento volto a garantire un bene primario, nonché un diritto fondamentale, come la salute si finisce per vedere il sistema sanitario nazionale come un mero capitolo di spesa.
Questo approccio è fuorviante.
Nel parlare di sostenibilità è necessario ricordare che le politiche per la tutela della salute non sono “spesa”, ma motore di crescita, sono uno strumento fondamentale per la coesione sociale, un potente traino per l’economia e l’occupazione nonché un importante fattore di sviluppo di settori ad alta tecnologia e intensità di ricerca.
In questo particolare momento storico, i valori fondanti del nostro sistema sanitario, che ha portato l’Italia ad avere ottimi risultati in termini di accesso ai servizi e di esiti sulla salute, a fronte di un impegno economico inferiore a quello di molti altri paesi dell’area OCSE, rischiano di essere intaccati.
Le recenti manovre hanno previsto tagli ai fondi per il Servizio Sanitario Nazionale che arrivano a raggiungere nel 2014 un valore pari a circa mezzo punto di Pil.
L’effetto complessivo di tali pesanti restrizioni non può che gravare sulle persone più fragili, alle quali non è più possibile garantire quelle forme di assistenza che, pur con qualche difficoltà, hanno costituito una risposta alle loro esigenze più gravi.
A questo si aggiunge il rischio di una progressiva demotivazione degli operatori sui quali ricadono condizioni di lavoro sempre più pesanti e sui quali grava l’odiosa “responsabilità” di negare (o rinviare) l’assistenza alle persone che accedono ai servizi.
Tutto questo in un settore che, secondo la Corte dei Conti, è già stato oggetto della “più avanzata e più completa esperienza di quello che dovrebbe essere un processo di revisione della spesa” (Corte dei Conti, 2012).
Il rischio è che, di fronte alle gravi difficoltà economiche, siano sacrificati i principi di fondo che il nostro sistema di tutela della salute ha da tempo adottato.
È più semplice tagliare intere aree di intervento o rinviare a complesse riorganizzazioni dei servizi, piuttosto che intervenire puntualmente sulle tante, piccole e grandi, inefficienze e inadeguatezze che si celano all’interno di un sistema le cui fondamenta e la cui funzionalità vanno comunque riconosciute e preservate. La crisi non può diventare la giustificazione di un rovesciamento dei principi.
Al contrario, la crisi può diventare una potente occasione per impegnarsi a liberare energie e risorse (da destinare a migliorare l’offerta di servizi e reggere l’impatto delle ristrettezze) e per trovare il coraggio di intraprendere quelle azioni, da tempo attese, indispensabili per superare in alcune realtà territoriali le storiche debolezze che gravano su una parte dei cittadini.
L’obiettivo è coerente con le evidenze internazionali che mostrano l’Italia fra i primi posti nell’area Oecd quanto a performance complessiva del settore sanitario (anche in termini di efficienza) ma confermano l’esistenza di ulteriori margini di miglioramento. In tale contesto, il problema della sostenibilità non può essere affrontato solo dal punto di vista economico.
“Per diversi motivi – ha spiegato la Senatrice Emilia De Biasi, Presidente della Commissione Igiene e Sanità – il nostro modello è a un bivio: o verso una revisione del modello universalistico o verso un sistema di tipo assicurativo.
Purtroppo il mondo della politica in questo momento è disattento alle questioni della sanità e contemporaneamente gli operatori del sistema sono rinchiusi in loro stessi. Personalmente penso che la scelta universalistica debba essere perseguita e migliorata.
Una sanità per tutti è più equa”.
FUORIGIOCO MA PER POCO
“LE NUOVE FRONTIERE DELL’EMOFILIA NELLO SPORT”
Fedemo, la Federazione delle Associazioni degli emofilici, in occasione della giornata mondiale dell’emofilia, ha organizzato, lunedì 13 aprile, nella sede del Comitato olimpico nazionale (Coni) a Roma, una conferenza stampa ed una tavola rotonda dal titolo: “Le nuove frontiere dell’emofilia nello sport”.
«L’incontro di oggi – ha spiegato il presidente FedEmo, Cristina Cassone – è un’occasione di confronto e un laboratorio di proposte atte a migliorare l’accesso alla pratica sportiva superando alcuni degli attuali ostacoli che lo rendono spesso complicato per le persone affette da questa patologia. Vogliamo discuterne in modo approfondito ed appropriato, ma anche in maniera positiva e propositiva».
Ha anche ricordato come la pratica sportiva sia in grado di abbattere quelle che ha definito “le frontiere dei nostri dubbi”, lei che è mamma di un’adolescente che si sta affacciando alla vita.
Stefania Farace, segretario generale di FedEmo e coordinatrice del Comitato Giovani rispondendo ad alcune domande sul perché di una giornata dedicata allo sport ha affermato: “L’idea di dedicare il tema della Giornata Mondiale dell’Emofilia 2015 proprio allo sport è nata nel momento in cui abbiamo sentito forte la necessità dei pazienti emofilici di tagliare un nuovo traguardo ora che la loro qualità di vita è già migliorata grazie ai progressi raggiunti sia in ambito medico che scientifico. Alcune delle nostre associazioni di pazienti si sono impegnate in diversi progetti dedicati allo sport negli ultimi anni ed era nostro desiderio sostenere queste ultime e coinvolgerne le altre.
“Fuorigioco ancora per poco” è il nostro messaggio e tra i nostri portavoce ci saranno Enrico Mazza, Luca Montagna e Francesco Fiorini, tre pazienti emofilici che correranno la prossima maratona di New York, culmine del progetto Marathon”.
Lo sport è importante.
Ed è importante che ognuno scelga quello più adatto a sè. Chi supporta, oggi, i ragazzi emofilici e le loro famiglie in questa scelta?
“Il medico è colui che supporta i ragazzi emofilici e le loro famiglie in questa scelta.
Lo sport verso il quale sono maggiormente indirizzati è, sicuramente il nuoto. Grazie, però, ai trattamenti terapeutici di profilassi è possibile scegliere con serenità anche discipline diverse da questa e, se si vuole, praticarle a livello agonistico. In Europa ci sono già degli atleti emofilici ed uno di questi è Alex Dowsett, che è venuto a raccontarci la sua esperienza”.
La WFH ha realizzato per la Giornata Mondiale una locandina che invita a “costruire una famiglia di supporto” per i pazienti. A che punto siamo in Italia secondo te? Esiste una adeguata rete di sostegno?
“Penso che in Italia ci siano tutti i presupposti per fortificare ed ampliare questa rete formata, innanzitutto, dai Centri Emofilia. Renderla adeguata a rispondere ai bisogni dei pazienti sarà possibile soltanto mantenendo alto l’impegno delle associazioni, dei medici e delle istituzioni. Il lavoro da fare è ancora molto”.
Quali sono le difficoltà maggiori che incontrano i più giovani e quali sono gli obiettivi che, in particolare, FedEmo Giovani si propone per il futuro?
“In un mondo che corre tanto veloce, ciò che preoccupa maggiormente i ragazzi sono le disparità.
Oltre alle disparità nello sport e nell’accesso alle cure, temi toccati durante le scorse celebrazioni della giornata mondiale, vi sono disparità che riguardano anche la quotidianità, ad esempio nel rinnovo delle patenti di guida. Per retaggio del passato l’emofilia rientra tra le gravi patologie del sangue che devono essere dichiarate e comportano il passaggio nelle Commissioni Medico Ospedaliere.
In quella sede, non essendoci linee guida in merito, il periodo del rinnovo è fissato sulla base della discrezionalità della commissione medica di turno che spesso disconosce la malattia e i progressi scientifici del suo trattamento, a partire dalla profilassi.
Per FedEmo il Comitato Giovani è una realtà nuova che si propone, innanzitutto, di impegnarsi in una formazione che permetta di comprendere non solo come si opera nella realtà associativa nazionale e internazionale, ma anche di lavorare efficacemente alla soluzione di problemi concreti quali quello sopra descritto”.
Mentre il prof. Di Minno presidente della Associazione Italiana dei Centri Emofilia (AICE), ha parlato di una sorta di rivoluzione nella qualità di vita ed un avvio verso la normalità attraverso i farmaci sempre più sicuri e la profilassi, Il dott. Romano Arcieri, nel presentare la tavola rotonda e definendosi un emofilico “anziano” ha ricordato come trent’anni fa si fosse impreparati, ma soprattutto incapaci anche di cadere perché l’imperativo era “stare fermi il più possibile, mentre oggi siamo qui per valutare l’emofilia e lo sport, discutendo un percorso multidisciplinare anche da parte dell’emofilico”.
La Senatrice Laura Bianconi, membro XII Commissione Igiene e Sanità del Senato ha affermato che: “I progressi che sono stati fatti in campo medico e scientifico consentono oggi di poter assistere a meravigliose conquiste.
La possibilità di accedere nell’immediato alla storia clinica e alle modalità di trattamento di ogni paziente, soprattutto in condizione di emergenza, è un obiettivo perseguibile con le attuali tecnologie.
Il progetto del “braccialetto” – sviluppato per l’emofilia – potrebbe essere un modello di riferimento non solo per altre patologie rare e croniche, ma per tutti noi cittadini, a tutela della nostra sicurezza, nonchè dell’efficienza ed efficacia dei servizi sanitari”.
Mentre Debora Seracchiani, Presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia ha ribadito che: “La sfida per i sistemi sanitari regionali, per non rimanere “fuori gioco” nella partita contro le malattie emorragiche congenite è quella di fornire risposte assistenziali efficaci ed efficienti per permettere a questi pazienti di avere una piena integrazione sociale, come quella che si realizza con lo Sport.
I percorsi di cura per le Malattie emorragiche congenite, adottati dalle Regioni, possono costituire un modello “pilota” per molte altre patologie.
C’è una lunga strada davanti a noi in termini di informazione e formazione, ma ci auguriamo che come gli atleti emofilici alla maratona di New York si possa raggiungere il traguardo. Sosterrò con forza ogni possibile progresso in questo delicato settore”.
Ricordando poi quanto ha affermato il Ministro della salute sulla personalizzazione, su questo tema ha insistito la dott.ssa Rita Santoro, direttore del Centro Emofilia di Catanzaro, intervistata a margine dell’incontro.
“Poter concretamente personalizzare la profilassi di un paziente emofilico è una conquista che ritengo importante.
Finora tutti noi ematologi – ha affermato – avevamo in qualche modo tentato di ‘personalizzare’ su base empirica la terapia, ma solo grazie alla farmacocinetica e allo strumento che oggi è disponibile, possiamo dire di metterla in atto realmente, con risultati evidenti. La mia esperienza su un paziente pediatrico – il primo al quale ho personalizzato la profilassi tramite il software – è stata valida da due punti di vista. Da un lato sono riuscita a capire quale fosse il livello basale che si desiderava raggiungere e quindi calcolare il giusto dosaggio per offrire una protezione al paziente continua e senza intervalli; dall’altro, i dati elaborati dal software fornito dalla Baxter, hanno avuto un effetto di tipo psicologico sulla famiglia del bambino, che si è convinta a modificare il proprio punto di vista nella gestione, involontariamente errata, della terapia del figlio.
La possibilità – ha aggiunto l’ematologa – di valutare in uno studio come l’Ahead i benefici osservabili dall’applicazione della personalizzazione della terapia su base farmacocinetica per riuscire ad arrivare a ‘zero sanguinamenti’, ritengo sia una fonte di arricchimento per chi, come noi, ogni giorno si trova ad affrontare situazioni cliniche complesse, dandoci un aiuto concreto nell’aiutare i pazienti a stare meglio soprattutto in termini di qualità della vita.
Sebbene – ha concluso – le difficoltà dei Centri Emofilia in Italia siano molte, a causa di una scarsa riconoscibilità, e quindi da una carenza di personale formato in grado di assicurare un adeguato ricambio generazionale, ritengo che unitamente al proseguimento della ricerca, la personalizzazione della terapia tramite la farmacocinetica – anche grazie all’ausilio che ci arriva dalla tecnologia – siano i pilastri sui quali continuare a lavorare per raggiungere l’obiettivo di ‘zero sanguinamenti’ a beneficio dei pazienti”.
La dott.ssa Chiara Biasoli responsabile del Centro Emofilia di Cesena e membro del Comitato Medico Scientifico di Fedemo, anche lei intervistata a margine dell’incontro ha insistito soprattutto su un punto importante che è oggi il vero problema della cura dell’emofilia, lo sviluppo degli inibitori nei pazienti emofilici.
“Questo rappresenta una grande sfida nel trattamento di questa patologia e attualmente rappresenta la maggior complicanza. La presenza di inibitori è un importante limite alla terapia sostitutiva: neutralizzano il FVIII o il FIX rendendo inefficace qualsiasi modalità terapeutica sia a domanda che in regime di profilassi.
La famiglia, il paziente – spiega la dottoressa Biasoli – al momento della diagnosi, hanno appena accettato una malattia cronica ‘inguaribile’ ma curabile attraverso la somministrazione del fattore.
Oggi possiamo affermare che attraverso la diffusione della profilassi primaria e anche secondaria i nostri pazienti possono avere una qualità della vita veramente buona.
Ma quando compaiono gli inibitori i familiari, i pazienti si trovano di fronte e noi medici insieme a loro – ha proseguito l’ematologa – alla “vecchia emofilia”.
E allora per tutti è una sconfitta, è un dover ricominciare… Insieme dobbiamo riprendere in mano “la malattia”. Si parla allora di agenti bypassanti, regimi di immunotolleranza, immunomodulatori.
Tra noi medici – continua la Biasoli – spesso manca la consapevolezza che per molti di questi pazienti può essere presa in considerazione la profilassi eseguita correttamente nei dosaggi e nelle modalità perché anche in questi casi profilassi può significare prevenzione.
La mia esperienza di pazienti con inibitori è con i bambini.
A volte utilizzando l’agente bypassante in profilassi la vita di questi ragazzini, e dei loro familiari, rifiorisce e si può tornare lentamente ad una condizione di quasi normalità”.
In Italia si stima che solo il 28% circa dei pazienti con inibitore sia trattato in profilassi.
“In Italia – spiega ancora la Responsabile del Centro Ematologia di Cesena – una delle motivazioni alla base di questa scarsa adesione potrebbe essere correlata alla possibilità di eseguire profilassi con prodotto plasmatico ed alla continua ricerca di evidenza. Attraverso la condivisione di esperienze e la raccolta di casi clinici si potrebbe incrementare l’applicazione di profilassi.
In questo gruppo di pazienti ognuno ha una propria storia clinica emorragica, artropatie già instaurate o meno, una emotività familiare; tutti questi fattori vanno tenuti in considerazione per fare il meglio per ciascuno di loro sulla base delle evidenze” .
Abbiamo ascoltato il dott. Pier Luigi Solimeno chirurgo ortopedico dell’Ospedale Maggiore del Policlinico di Milano, uno dei maggiori esperti al mondo negli interventi sugli emofilici, raccontare come stia preparando 8 “atleti” giovani e meno giovani a partecipare alla maratona di New York.
Qui si che possiamo fidarci che la preparazione sarà più che mai scrupolosa, anche in assenza di una legislazione specifica o di quel “famigerato” foglio giallo che ha nominato Arsenio Veicsteinas Presidente del Comitato Scientifico della Federazione Medico Sportiva.
Si tratta semplicemente del foglio per la responsabilità legale all’autorizzazione alla pratica sportiva agonistica, una sorta di tutela importantissima.
Poi però ha affermato che si può trovare una soluzione se il medico ematologo firma una dichiarazione, sotto la sua responsabilità che l’atleta è coperto e può gareggiare senza pericolo.
Andrea Buzzi, presidente della fondazione Paracelso è rimasto con i piedi ben piantati a terra, anche lui da “vecchio” emofilico ed ha affermato: “Il punto importante innanzitutto è parlare di normalità, di benessere della persona anche attraverso la pratica sportiva.
Questo è un argomento che possiamo accettare”.
Uno che lo sport lo pratica da tempo ed anche lui ha i piedi ben piantati a terra, Enrico Mazza, vent’anni, giocatore di pallanuoto che si sta preparando per la maratona di New York in chiusura del suo intervento ha voluto ricordare che: “Superare gli altri è avere forza ma superare se stessi è senz’altro essere forti”.
Gli abbiamo chiesto da quanto tempo fa sport e se ha il famoso “foglietto giallo”.
Questa è stata la sua risposta: “È da quando ho 11 anni che pratico sport a livello agonistico e non ho mai avuto problemi ad ottenere il foglio giallo che mi permette di fare sport ad un certo livello.
Nello specifico, richiedo sempre al Centro Emofilia di Milano un foglio nel quale si dichiara che sono seguito presso il Centro, che sono in profilassi e che non ci sono controindicazioni sulla pratica dello sport da me scelto.
Durante la visita medica sportiva, è il medico stesso che effettua una visita ortopedica e che mi pone domande sulla malattia e sulla mia storia clinica”.
UN INCONTRO CON I RICERCATORI DEL TIGET
Seguire gli sviluppi di tutti i progetti legati a Telethon sarebbe un’impresa molto difficile, perché noi, da anni, cerchiamo di informare soprattutto su quelli che sono “mirati” alle malattie che seguiamo con più assiduità, l’emofilia e la talassemia.
Il 30 aprile, dopo la nostra specifica richiesta rivolta a Telethon, siamo stati invitati a Milano per un’intervista, ma ci siamo subito resi conto del fatto che era stata organizzata per noi una sorta di “mini-convegno” al quale erano presenti tre ricercatori del TIGET guidati dal Prof. Luigi Naldini, presente anche lui all’incontro e che conosceremo più avanti assieme ai suoi collaboratori.
È stata, inutile nasconderlo, una piacevolissima sorpresa di cui intendiamo dare ampia relazione ai nostri lettori, soprattutto allo scopo di informarli sullo stato di avanzamento delle attività di ricerca.
CHE COS’E’ IL TIGET
Innanzitutto, visto che ne siamo stati ospiti, conosciamo il TIGET.
Si tratta dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica.
La sua missione è quella di sviluppare la ricerca di base, preclinica e clinica riguardante la cura di malattie genetiche attraverso la terapia genica, che mira ad introdurre nelle cellule dei pazienti il gene corretto per la produzione della forma funzionale del fattore deficitario.
Il TIGET è stato fondato nel 1995 congiuntamente dall’IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) Ospedale San Raffaele e dalla Fondazione Telethon. Dal 2008 l’Istituto è diretto da Luigi Naldini.
È situato all’interno di locali attrezzati messi a disposizione dall’Ospedale San Raffaele e riceve un finanziamento da Telethon, concesso sulla base di una rigorosa valutazione periodica effettuata ogni 5 anni dalla Commissione medico-scientifica (con un aggiornamento a metà del ciclo di finanziamento).
Circa 130 persone sono attive all’interno dell’Istituto, inclusi i ricercatori, il personale amministrativo e lo staff tecnico.
GLI INCONTRI INFORMATIVI
L’incontro di primavera (biennale): con un format innovativo Telethon coinvolge le associazioni amiche in una giornata di formazione dove i pazienti stessi sono chiamati a raccontare le buone prassi legate ai percorsi di ricerca scientifica che hanno realizzato insieme a Telethon (biobanche, registri dei pazienti).
E-patients, e-parents, e-doctors: giornata formativa dedicata a pazienti, genitori e medici alle prese con il reperimento di informazioni sulle patologie rare, organizzata in collaborazione con Orphanet Italia. L’obiettivo è quello di fornire una serie di linee guida sull’uso responsabile del web dopo la prima diagnosi e approfondire la conoscenza dei social network come strumenti a supporto della comunicazione delle malattie rare.
La Convention scientifica di Telethon (biennale): un evento che riunisce la comunità scientifica Telethon e la comunità dei pazienti. Il programma comprende infatti sessioni scientifiche, che prevedono interventi di relatori internazionali e relatori Telethon così come la presentazione di poster sui progetti di ricerca in corso, e un convegno per le associazioni amiche di Telethon, che rappresenta un momento di formazione su temi scientifici esposti in modo “laico” dai ricercatori stessi alle associazioni.
I progetti di ricerca
Passiamo quindi ad illustrare come si svolge la ricerca sull’emofilia e quali sono i progetti:
Telethon destina i propri fondi ad attività di ricerca interna, ossia svolta presso gli istituti fondati da Telethon, ed esterna, ossia condotta presso istituti pubblici o privati non profit di tutta Italia.
Per quanto riguarda l’impegno di Telethon a favore della ricerca sull’emofilia, sono stati sinora finanziati otto progetti di ricerca esterna, per un totale di un milione di euro circa, ed uno di ricerca interna, che ha ottenuto per tre volte il rinnovo del finanziamento da parte di Telethon, per un totale di ottocentomila euro circa. Quest’ultimo è appunto il progetto del Prof. Naldini e del Dott. Cantore, tuttora in corso, su cui abbiamo scelto di focalizzare questo articolo.
Esiste una cosiddetta ricerca esterna che consta di otto progetti finanziati per un totale di un milione di euro. Due sono i progetti attualmente in corso: uno seguito da Mirko Pinotti dell’Università di Ferrara, per l’emofilia B ed uno da Francesca Fallarino, Università di Perugia, per l’emofilia A.
Poi c’è la ricerca interna, quella appunto del Tiget, con un progetto finanziato per un totale di 833.208 euro attualmente in corso: TGT11D03, PI di Luigi Naldini, collaboratore Alessio Cantore.
Oltre ai progetti specifici sull’emofilia, Telethon ha finanziato 113 progetti di ricerca su malattie del sangue e degli organi ematopoietici, per un finanziamento totale di 27.116.508 euro.
IL COMUNICATO STAMPA
Nel corso dell’incontro ci è stato consegnato un comunicato stampa che riproduciamo quasi integralmente.
Milano, 5 marzo 2015 – Un team internazionale di ricercatori guidati da Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia genica (TIGET) di Milano, ha messo a punto una terapia genica che potrebbe offrire una cura definitiva per l’emofilia B, malattia genetica dovuta al difetto di uno dei fattori della coagulazione del sangue che causa sanguinamenti spontanei, dannosi per l’organismo e potenzialmente letali.
Questa terapia agisce alla base della malattia fornendo l’informazione genetica corretta alle cellule del paziente perché possano produrre un fattore della coagulazione funzionante.
Lo studio, frutto della collaborazione del gruppo di Luigi Naldini con ricercatori in Germania, Francia, Belgio e USA è pubblicato sulla prestigiosa rivista Science Translational Medicine.
La terapia genica è stata sperimentata su alcuni cani già malati di emofilia B, ai quali sono stati somministrati vettori lentivirali portatori del gene sano. Una singola somministrazione del vettore ha ripristinato stabilmente l’espressione del fattore della coagulazione mancante e ridotto considerevolmente i sanguinamenti spontanei a più di 5 anni dal trattamento. […]
La potenzialità terapeutica della terapia genica per questa malattia è stata recentemente dimostrata in alcuni pazienti affetti da emofilia B e trattati con vettori derivati dal virus adeno-associato che trasferiscono il fattore IX della coagulazione, il gene difettoso in questa patologia.
Tuttavia non sarà possibile estendere questa terapia a tutti i pazienti a causa di alcune limitazioni di questi vettori.
È quindi necessario sviluppare strategie alternative.
I vettori lentivirali, derivati in origine dal virus HIV, potrebbero dimostrarsi vantaggiosi in questo senso.
Questi vettori sono stati già utilizzati con risultati favorevoli in via sperimentale in bambini affetti da alcune immunodeficienze o malattie neurodegenerative presso il TIGET, trattando le cellule staminali del sangue prelevate dai pazienti e poi reinfuse dopo il trattamento.
Nel nuovo studio i vettori lentivirali sono iniettati direttamente nel sangue, attraverso cui raggiungono il fegato, sede naturale di produzione del fattore IX della coagulazione, dove inseriscono in alcune cellule una copia funzionante del gene.
Le cellule del fegato, così corrette, possono quindi immettere continuativamente il fattore nel circolo sanguigno, all’interno del quale potrà svolgere la sua funzione, quando necessario.
“In questo lavoro abbiamo valutato l’efficacia e l’eventuale tossicità della somministrazione diretta di vettori lentivirali in tre cani affetti da emofilia B, tutti nati presso la colonia di Chapel Hill in North Carolina e che rappresentano il modello più vicino all’uomo di questa malattia; tutti e tre i cani sono vivi, stanno bene e hanno riportato un beneficio duraturo (a più di cinque anni di osservazione) in seguito alla terapia genica, dimostrabile dalla riduzione o assenza di sanguinamenti spontanei” afferma Alessio Cantore, ricercatore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (TIGET) e primo autore dello studio.
Coautori dello studio sono Eugenio Montini, ricercatore al TIGET e Marco Ranzani, dottorando di ricerca, che hanno dimostrato l’assenza di complicazioni a lungo termine della terapia dovute all’inserzione dei vettori lentivirali nel DNA delle cellule del fegato su modelli sperimentali da loro sviluppati.
Luigi Naldini commenta: “Questo lavoro pone le basi per una prossima sperimentazione clinica della terapia genica dell’emofilia B con i vettori lentivirali, anche se serviranno ancora alcuni anni di lavoro per garantire efficacia e sicurezza anche nell’uomo. Una prospettiva oggi più realistica, grazie anche all’accordo siglato da Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele con l’azienda americana Biogen per lo sviluppo clinico di questa terapia”. […]
L’INTERVISTA
In conclusione abbiamo rivolto alcune domande al Prof. Naldini per chiarire meglio per i nostri lettori l’argomento che ci riguarda particolarmente da vicino: l’emofilia.
Partiamo da quello che abbiamo scritto sul nostro primo comunicato nel precedente numero del nostro giornale e lo trasformiamo in una domanda:
La strategia terapeutica dell’istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica permette di introdurre geni corretti e funzionanti nelle cellule dei pazienti affetti da malattie genetiche.
Il TIGET si sta impegnando nello sviluppo di strategie di terapia genica anche per il trattamento dell’emofilia di tipo A e B.
A che punto siete con la ricerca?
“Per quanto riguarda l’emofilia di tipo B, abbiamo ottenuto dati incoraggianti sulla sicurezza e l’efficacia della terapia genica con vettori lentivirali nel modello del cane emofilico B, mentre nel caso dell’emofilia A stiamo effettuando degli studi nel modello murino”.
Ancora nell’articolo da noi pubblicato in gennaio si afferma che: Nel caso dell’emofilia la terapia genica mira a introdurre versioni funzionanti dei geni in grado di produrre le proteine coinvolte nel processo di coagulazione che sono carenti in questi pazienti.
La terapia genica sviluppata al TIGET si basa sull’impiego di vettori lentivirali, ottenuti dalla “ingegnerizzazione” del virus HIV per trasportare nelle cellule dei pazienti versioni funzionanti di quei geni che quando difettosi sono responsabili di specifiche malattie.
Prof. Naldini ci può chiarire meglio questo concetto?
“La nostra tecnica si basa su un particolare tipo di vettore, quello lentivirale, che deriva in origine dal virus HIV.
Per molti anni abbiamo lavorato all’ingegnerizzazione di questo virus in modo da farne un veicolo efficace e relativamente sicuro per inserire geni nelle cellule.
In questo caso, stiamo per primi sviluppando l’applicazione di questo veicolo alla terapia genica dell’emofilia A e B.
Altre strategie di terapia genica dell’emofilia usano infatti altri virus ingegnerizzati, quali ad esempio i virus adeno-associati, aventi proprietà differenti.
L’impiego di vettori lentivirali potrebbe risultare vantaggioso su vari fronti. Innanzitutto, questo tipo di vettore è in grado di accomodare sequenze di DNA anche di grandi dimensioni, quale è il caso del gene per il fattore VIII, coinvolto nell’emofilia A.
Inoltre, i vettori lentivirali possiedono la proprietà di integrarsi nel genoma della cellula ospite e di venire quindi tramandati attraverso i cicli di replicazione cellulare, persistendo nel patrimonio genetico delle cellule figlie. Di conseguenza, la terapia genica con vettori lentivirali, se dimostrata sicura e di successo, potrebbe in futuro essere impiegata anche in bambini affetti da emofilia, nei quali garantirebbe un beneficio terapeutico a lungo termine, dal momento che il gene funzionale verrebbe trasmesso dalle cellule corrette alla propria progenie cellulare, non venendo quindi “diluito” nel corso della crescita dei tessuti che avviene fisiologicamente nell’organismo.
Infine, nel caso dei sopra citati virus adeno-associati, una percentuale importante della popolazione ne viene infettata nel corso della vita e sviluppa una risposta immunitaria contro di essi, potenzialmente in grado di neutralizzare i vettori da essi derivati. I vettori lentivirali potrebbero offrire la possibilità di usufruire di una terapia genica anche a pazienti immunizzati contro virus adeno-associati. D’altro canto la terapia genica basata su vettori lentivirali specificamente diretti alle cellule epatiche rappresenta una strategia ad uno stadio più precoce di sviluppo, che richiede quindi uno studio accurato di sicurezza ed efficacia in modelli preclinici”.
Voi attualmente state effettuando delle sperimentazioni sui cani, perché?
“Come già accennato, il primo passaggio delle sperimentazioni animali viene effettuato in specie di piccola taglia, quale il topo.
È facile comprendere come, ad esempio, la quantità di vettore necessaria per il trattamento del topo sia nettamente inferiore a quella richiesta per l’uomo, il cui organismo è di dimensioni decisamente superiori. Questo, così come molti altri parametri, necessita di essere valutato in animali più vicini all’uomo, sia per la taglia sia per la fisiologia.
In questo caso stiamo collaborando con l’Università della North Carolina, negli Stati Uniti d’America, che ospita una colonia di cani affetti da emofilia B, che rappresentano ad oggi il modello più vicino all’uomo di questa malattia.
Effettuare degli studi in questi cani sulla sicurezza ed efficacia della terapia genica che stiamo sviluppando rappresenta quindi un passaggio naturale ed obbligato nel percorso di preparazione agli studi clinici nei pazienti”.
Nello sviluppo della terapia genica per la talassemia e l’emofilia state seguendo due strade differenti, la prima mirata al midollo e la seconda al fegato. Il meccanismo alla base delle due non è quindi lo stesso?
“Per quanto riguarda la terapia genica della talassemia, il TIGET, e in particolare il gruppo della Prof.ssa Giuliana Ferrari, sta sviluppando una strategia ex vivo. La correzione genetica del gene della beta-globina, responsabile della patologia, viene effettuata attraverso l’impiego di vettori lentivirali in cellule staminali emopoietiche prelevate dal paziente stesso e reintrodotte nell’organismo a seguito della correzione. Differentemente, nel caso dell’emofilia stiamo mettendo a punto una strategia di terapia genica in vivo, in cui i vettori lentivirali sono somministrati per via endovenosa e diretti alle cellule del fegato”.
Quali possono essere le prospettive di questa ricerca nel prossimo futuro?
“Innanzitutto miriamo a completare gli studi sopracitati nei cani, per definire la dose terapeutica ottimale per efficacia e sicurezza. Un altro passaggio importante sarà quello di sviluppare un processo di produzione del vettore secondo criteri GMP (Good Manufacturing Practice, ossia Norme di Buona Fabbricazione), che assicurano un elevato standard di qualità del vettore prodotto per la somministrazione nell’uomo. Abbiamo certamente davanti ancora alcuni anni di lavoro”.
VOLONTARIATO: IL PATRIMONIO PIÙ GRANDE CHE ABBIAMO
Questo numero del giornale rappresenta una sorta di escursione attraverso il nostro maltrattato stivale, alla ricerca di quegli avvenimenti e di quelle attività legate soprattutto alle associazioni di volontariato ma anche rivolto ai medici che discutono sulle terapie migliori possibili.
Spesso non ci rendiamo conto di quanta attività si svolga nonostante le difficoltà della sanità, la spending review, la politica corrotta, il malaffare, la poca fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nell’immagine di copertina ho voluto
Evidenziare un gruppo di mani che si intrecciano in una unione ideale e che rappresentano coloro che all’interno della società, cercano di difendere i più deboli, coloro che non hanno voce.
Poi, all’interno di questo numero possiamo leggere anche il lavoro, i propositi, l’impegno e gli obiettivi dei nostri medici che in qualche modo e molto spesso sono costretti, loro malgrado, a dedicarsi al volontariato se vogliono seguire adeguatamente i pazienti loro affidati.
Leggiamo le innumerevoli azioni delle associazioni di volontariato che sono, una volta di più, la vera forza vitale in difesa dei più deboli.
E vediamole quindi le azioni che stanno svolgendo in questo momento.
Chi non conosce ad esempio “Cittadinanza Attiva”, nata come Tribunale per i diritti del Malato?
Quest’anno ha festeggiato il suo trentacinquesimo anno e lo ha fatto nella sala del Capidoglio e con il patrocinio del Ministero della Salute. (vedere il servizio alle pagine 20 e 21 – n.d.R.).
Le parole di Tonino Aceti, coordinatore nazionale, lanciando una sorta di linee guida della sfida per i prossimi anni, la difesa del Servizio Sanitario Nazionale, affermato tra l’altro:
“Esiste una responsabilità dell’attuale generazione della classe dirigente – politica, amministrativa, professionale, civica, delle imprese – di consegnare alle generazioni future un bene comune, una conquista irrinunciabile e una necessità qual è il Servizio Sanitario Nazionale, integro nei suoi principi fondamentali, e ci auguriamo migliore.
Non dobbiamo soffocare in nome della crisi economica e del rigore dei conti, la domanda impellente di vecchi e nuovi diritti e di un Servizio Sanitario Pubblico più forte, efficiente ed efficace”.
Le sue parole sono quasi un monito rivolto a chi, in sordina, sta tentando di provare a cambiare il nostro sistema sanitario con le conseguenze che poi ne deriverebbero.
È quindi un dovere insopprimibile vigilare affinché i servizi siano garantiti per tutti.
Ci sono poi le associazioni rivolte alle categorie specifiche di persone che il nostro giornale informa da oltre quarant’anni e cioè i rappresentanti degli emofilici e dei talassemici.
Si parla della TIF, la Federazione Internazionale che rappresenta i talassemici di tutto il mondo E che rivolge la sua attenzione a due paesi africani particolarmente carenti nei livelli elementari di cura.
La stessa TIF che ha ottenuto un importante riconoscimento internazionale.
Per quanto riguarda invece l’emofilia, il vero fiore all’occhiello è oggi rappresentato dalla Fondazione Paracelso (notizie alle pagine 18 e 19 – n.d.R.).
Riportiamo l’intervento del vice presidente della Fondazione stessa all’incontro che aveva come titolo: “Spendere meno o spendere meglio?”, Durante il quale cita cinque punti del “Gruppo Italiano per una Sanità Partecipata” e che sono:
- Quando chiedi un esame di controllo o un farmaco ricordati che “Chiedere di più non significa necessariamente curarsi meglio”.
- Se il medico ti prescrive un esame di controllo, un farmaco o un intervento chirurgico ricordati che “Fare di più non significa fare meglio”.
- Prima di andare dal medico, prepara una lista delle domande che vorresti fare o dei dubbi che vuoi chiarirti. Può essere utile anche preparare un elenco dei sintomi.
- Durante la visita chiedi al medico di scrivere le indicazioni che ti dà e, se vuoi saperne di più, chiedi dove poter trovare altre informazioni. Condividi sempre con il tuo medico le informazioni che trovi.
- Se devi fare un esame di controllo o un intervento chirurgico, informati su quanti esami o interventi di quel tipo sono stati fatti in un anno dal medico e dal reparto a cui ti rivolgi.
Ecco quindi, per concludere, il significato di questo editoriale, che vuole riportare l’attenzione verso una informazione puntuale e corretta, anche attraverso le notizie di convegni che a volte possono sembrare ripetitivi per gli addetti ai lavori ma che sono in realtà una fonte informativa insostituibile e di aggiornamento di tutte le migliaia di persone che in altro modo non l’avrebbero.
Ancora quindi voglio evidenziare l’importanza fondamentale delle associazioni dei pazienti, come anello di congiunzione con le istituzioni e con il troppo spesso sordo mondo della politica.
Facciamo in modo che ci siano anche dove attualmente latitano.
Proseguendo nel programma delle interviste rivolte ai medici che dirigono le organizzazioni rivolte ai pazienti siamo andati a trovare il prof. Di Minno, da poco eletto presidente dell’Associazione della Associazione Italiana Centri Emofilia (AICE).
INTERVISTA AL PROF. DI MINNO, PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA CENTRI EMOFILIA
“Mi sono laureato nel 1976 a Napoli con una tesi sul tromboembolismo venoso. A distanza di pochi mesi dalla laurea, mi sono trasferito presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano dove ho trascorso quattro anni durante i quali mi sono occupato di funzione piastrinica e di malattie emorragiche legate alla funzione piastrinica (quindi fondamentalmente di piastrinopatie congenite e acquisite).
Durante quel periodo ho conosciuto il dott. Silver (che nel ’78 era venuto in Italia per un anno sabbatico) e che mi ha condotto con sé negli Stati Uniti dove ho iniziato a fare “il medico dell’emostasi” con il dott. Murphy e il dott. Shapiro.
Quest’ultimo, a quell’epoca, descriveva gli inibitori acquisiti della coagulazione, in particolare l’anticoagulante tipo lupus e gli inibitori nell’emofilia.
Questo tipo di lavoro l’ho ripreso appena rientrato a Napoli nel 1985. Gli ematologi all’epoca attivi nell’università napoletana, il prof. Rotoli e il prof. Bruzzese, entrambi discepoli del nostro maestro comune il prof. Magrassi, di fatto non si occupavano se non occasionalmente di malattie emorragiche. Così ho iniziato ad occuparmene presso la Clinica Medica, e negli anni ’90 il Centro del Policlinico è diventato Centro di Coordinamento Regionale per le Emocoagulopatie.
Abbiamo iniziato, presso il nostro Centro e nella più assoluta collaborazione con i pazienti, primo fra tutti, il Dr. Giovanni Nicoletti, una gestione della emofilia (e, più in generale, delle malattie emorragiche), nella quale conoscere i problemi dell’emofilico doveva valere per l’ematologo o l’internista tanto quanto per l’odontoiatra, il chirurgo il pediatra, l’infettivologo (all’epoca era scoppiato il problema dell’AIDS). L’ematologia di Napoli e le malattie infettive provengono dallo stesso ceppo, e questo in qualche modo ha favorito la creazione di una nucleo di medici che si occupa a 360° dei pazienti emofilici e che da allora ha proseguito il proprio lavoro fino ad oggi.
Già da quegli anni, ho interagito con il prof. Mannucci in prima persona e con il suo gruppo oltre che con i medici di altri Centri come quello della “Sapienza” di Roma e quello di Parma della dott.ssa Tagliaferri (quest’ultima collaborazione è stata intrattenuta in particolare da un mio collaboratore, il dott. Coppola, attuale segretario AICE).
Abbiamo così allargato i nostri interessi di ricerca, e, agli inizi dell’anno 2000, è partito da Napoli il progetto noto come Registro Italiano dell’immunotolleranza con il quale abbiamo cominciato a raccogliere i dati di come si praticava (e si pratica al momento) l’immunotolleranza in Italia. Questo registro ci sta insegnando molte cose. Raccoglie i dati della gran parte dei Centri Italiani; sta dando una serie di informazioni importanti, ed è oggetto di importanti pubblicazioni”.
Quali sono gli obiettivi dell’AICE per i prossimi tre anni e quale pensa possa essere il futuro dei Centri, in considerazione delle nuove misure organizzative delle Regioni?
“Il rischio di chiusura di molti Centri diventa sempre più reale e questo è dovuto non solo alle carenze croniche di personale e di risorse Regionali, in particolare in alcune parti d’Italia, ma soprattutto al fatto che il numero di persone che si occupano attivamente di emostasi si sta riducendo drammaticamente.
Per questa ragione, proponiamo un progetto che offre borse di formazione a laureati in medicina che abbiano interesse per l’emostasi e che siano indirizzati non solo ad “imparare il mestiere” ma anche a rendere omogenea sul territorio nazionale la gestione della diagnosi e del trattamento del paziente con malattie emorragiche congenite. Questo programma è quindi finalizzato a fornire, soprattutto ai piccoli Centri, giovani preparati e capaci di mantenere in piedi nel futuro i Centri stessi.
Altro progetto che noi proponiamo, riguarda la messa in opera di un “servizio” di farmacocinetica.
Sempre di più comprendiamo che la farmacocinetica è importante per definire strategie appropriate di profilassi nei pazienti e per iniziare a ragionare sui nuovi farmaci.
Chi vorrà, potrà utilizzare questo “servizio” di AICE per i propri pazienti.
Ovviamente la farmacocinetica, per la quale ci gioveremo della grande esperienza del prof. Morfini, non può non tenere conto della disponibilità di un laboratorio di analisi che sia assolutamente credibile.
Ormai in oltre l’80% dei Centri Italiani, la diagnostica di laboratorio viene eseguita nei laboratori centralizzati.
Bisogna quindi agire in modo concreto e compatto sui laboratori centralizzati affinché la diagnostica che viene effettuata per i pazienti afferenti ai Centri sia la più vicina possibile alle reali necessità.
Il terzo progetto è di potenziare la diagnostica genetica non solo dell’emofilia A e B ma anche di altre malattie emorragiche congenite. Accanto allo sforzo che già è stato fatto e che continuerà per ciò che riguarda la caratterizzazione molecolare dell’emofilia, ci gioveremo dell’esperienza di alcuni dei nostri Soci nella caratterizzazione molecolare di altre malattie emorragiche congenite con l’obiettivo di arrivare, appena possibile, a definire interventi “su misura” per ciascuno dei nostri pazienti”.
Puntate decisamente alla personalizzazione della cura.
“Certo. E siamo convinti che ciò non può non essere un obiettivo dichiarato delle future Linee Guida per il trattamento delle malattie emorragiche congenite.
L’aggiornamento delle linee guida AICE avuto luogo nel 2013.
Nella pubblicazione di quel documento, AICE si è assunta l’impegno di pubblicare nuovi aggiornamenti ogni 3 anni.
Questo garantirà a tutti i Soci di mantenersi sempre aggiornati e di praticare strategie comuni d’intervento.
Ho concluso la prima riunione ristretta dell’AICE dicendo che ormai è necessario che i soci credano in questa associazione.
È importante sostituire l’essere con l’esserci se realmente AICE deve andare avanti”.
Come procede l’accreditamento dei Centri emofilia collegato con l’accordo dei Centri Malattie Emorragiche Congenite?
“È necessa
rio un confronto con le Regioni. Esiste la necessità dell’accreditamento dei Centri e c’è bisogno che le Regioni abbiano programmi unici per l’accreditamento delle malattie emorragiche congenite.Cosa che ha una serie di ovvii vantaggi per ciò che riguarda la gestione dei pazienti emofilici.
È chiaro infatti che se chi è già accreditato non perderà il proprio accreditamento, cercare di capire quali sono i concreti requisiti di ciascuna Regione per l’accreditamento e cercare di avere uniformità di comportamenti in un Paese che ha ventuno differenti tipi di sanità, è fondamentale per garantire al paziente uguali livelli di assistenza”.
Torniamo alla sanità regionale, all’ormai definito federalismo.
Ha combattuto o ha peggiorato l’assistenza a macchia di leopardo.
Non si è pensato magari di proporre un ritorno alla centralità?
Mi sembra che lei sia molto sensibile a questo problema?
“In effetti sono soprattutto convinto che il Ministero della Salute non debba limitare i propri interventi a leggi e decreti che rappresentino solo una cornice entro la quale le singole Regioni debbano muoversi. Temo però che questa mia sia una posizione velleitaristica, perché le Regioni non sono disposte a perdere il controllo della sanità e delle risorse a tale settore destinate.
L’unica maniera quindi per garantire uniformità di assistenza per i nostri pazienti è una fortissima alleanza medico-paziente con condivisione degli obiettivi da raggiungere. In settori sensibili come il nostro, questo diventa infatti un modo forte per imporre a tutte le Regioni livelli minimi di assistenza uniformi e non dettati solo dall’ottica del risparmio hic et nunc. Probabilmente questo indurrebbe il Ministero, anche per altre condizione cliniche, a proporre ragionamenti un po’ meno scontati. Faccio sempre un esempio per capire questo concetto “differente” di centralità. Esiste una serie di ospedali, i così detti istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, che pur facendo parte delle logiche regionali, di fatto entrano in una rete più controllata, più verificata da parte del Ministero. Ciò consente a questi istituti di avere comportamenti comuni su specifici argomenti pur nel rispetto dell’individualità delle Regioni e delle scelte regionali”.
L’assistenza in Campania, la sua Regione, mette il paziente al centro dell’organizzazione?
“L’assistenza in Campania è partita da quest’obiettivo. Non solo per volontà dei responsabili dei Centri, ma anche perché l’Associazione è stata sempre molto solida e concreta nelle cose che ha chiesto. L’associazione in Campania è capace attiva e viva nelle scelte: ricordo quando, nel periodo nel quale vi fu una riduzione importante della disponibilità di farmaci ricombinanti, l’Associazione ha preso in modo compatto e condiviso con i Responsabili dei Centri la decisione di chi eventualmente dovesse “tornare” all’utilizzo di prodotti plasma-derivati.
Un modello ed un esempio di come le cose possono andare avanti in modo condiviso.
E un chiaro messaggio agli amministratori di come organizzare gli interventi quando dall’altra parte vi è un corpo unico costituito dal paziente e dal medico. L’uno e l’altro decisi a fare un percorso di strada insieme; convinti, gli uni, che la malattia e la sofferenza fanno parte del proprio percorso umano, gli altri, che a loro tocca il compito di essere veri compagni di cammino del paziente”.
E parliamo infine del Rapporto Rodin. Quale è l’attuale posizione dell’AICE. È cambiato qualcosa dopo l’ultimo comunicato ufficiale?
“La posizione dell’AICE non è cambiata. La sorveglianza va fatta per tutti i farmaci che i nostri pazienti usano, non solo per alcuni. Noi tutti dobbiamo convincerci che la vigilanza è indispensabile per non abbassare il livello di guardia.
La vigilanza deve essere obbligatoria e quotidiana per il paziente come per il medico; lo deve essere per l’inibitore e per la sicurezza virale; lo deve essere per plasma-derivati e per ricombinanti. Questo è l’atteggiamento che noi riteniamo indispensabile.
E uno dei progetti che AICE intende implementare è di aprire un registro per tutti i nuovi trattamenti che vengono iniziati, indipendentemente se si utilizzino plasma-derivati o ricombinanti. Questo Registro nel tempo, raccoglierà i dati concernenti i nuovi ricombinanti long-acting, proprio con l’obiettivo di avere informazioni prospettiche di sicurezza e di efficacia che devono servire a tutti i pazienti”.
Le iniziative che da qualche anno ha coinvolto le donne dell’emofilia, hanno avuto un regolare svolgimento con gli incontri che abbiamo regolarmente documentato.
FINESTRA ROSA: IL VIAGGIO CONTINUA
Giovedì 5 marzo ci siamo incontrate a Torino per riorganizzare le attività di “Finestra Rosa” per l’anno 2015 e allora…“ il viaggio continua”.
Ritrovarsi è stato come tornare a casa, ci conoscevamo tutte e le dottoresse presenti sono entrate nel clima d’intimità e delicatezza che caratterizza i nostri incontri.
Abbiamo parlato del percorso fatto fino ad oggi, delle difficoltà dei vari centri di riferimento, ma fra tutti gli argomenti affrontati vorrei soffermarmi sul tema dell’accettazione della malattia.
Abbiamo allargato la visuale ad altri dolori che la vita impone, come ad esempio l’abbandono che subisce un bambino da parte dei genitori e il termine e il concetto di “accettazione” è risultato lungo, faticoso e la sofferenza talvolta ineliminabile, cosi come per la diagnosi di emofilia.
I sinonimi della parola accettare sono: ricevere, concordare con, assumere, consentire: queste definizioni indicano che l’accettazione è fatta volentieri, con gioia.
L’accettazione di una malattia cronica è dettata dalla necessità, e non è volontaria o gioiosa, richiede impegno fatica talvolta genera ambivalenza.
Allora, forse, dovremmo parlare di forme di convivenza e considerare l’emofilia una parte della personalità e non un tutto, in questa direzione gli effetti della malattia cominciano a diventare più circoscritti e non invadono tutte le situazioni della vita; le paure diventano più realiste, e meno totalizzanti.
La convivenza sviluppa la capacità di identificarsi con le persone che soffrono di difficoltà simili, è un segno di riconoscimento dei propri limiti e delle proprie risorse.
Sentimenti di amarezza, collera e gli atteggiamenti difensivi sono affrontati quando la persona non si vede più come una vittima, ma come un individuo che si assume la responsabilità della propria vita.
L’impatto con l’emofilia coinvolge direttamente tutti i familiari e in particolare le donne che in maniera indiretta e diversa hanno da trovare spazi di elaborazione e comunicazione per gestire questa convivenza.
La novità di questo nuovo viaggio è che lo faremo insieme alle dottoresse dei vari centri di riferimento e assumerà le caratteristiche di un percorso di formazione sul tema dell’ascolto.
Il titolo potrebbe essere “L’efficacia della comunicazione interpersonale” oppure “La comunicazione efficace”.
L’obiettivo è stimolare, osservare e scoprire cosa si nasconde dietro una “banale” comunicazione quotidiana, in cui siamo immersi tutti i giorni.
Comunichiamo sempre qualcosa, anche quando pensiamo di non farlo, perché ogni comportamento è comunicazione, invia messaggio agli altri, che lo si voglia o no.
La comunicazione è un’attività eminentemente sociale, è alla base dell’interazione e delle relazioni interpersonali.
Per queste ragioni si comprende perché la comunicazione risulta essenziale per generare, alimentare e conservare il benessere psicologico dell’individuo, così come essa è alla base delle manifestazioni di sofferenza psicologica, caratterizzate da ambiguità, equivoci, paradossi ecc..
Migliorare la nostra comunicazione ci permette di esprimere noi stessi, i nostri stati d’animo, poter istaurare relazioni soddisfacenti, condividere i nostri bisogni, valori ed esperienze.
Comunicare efficacemente significa anche saper ascoltare e quindi conoscere meglio gli altri, i loro sentimenti, emozioni, obiettivi.
Un punto importante da curare e migliorare l’informazione e la comunicazione degli incontri di Finestra Rosa, cercando strategie per coinvolgere tutte le donne, mogli, sorelle, cugine, zie, nonne, madri. Preziosa è la collaborazione con le dottoresse, che hanno dato la loro disponibilità a diffondere e incoraggiare la partecipazione.
Finestra Rosa… qualcuno ha provato a disegnarla; io, francamente, non saprei tracciarne i contorni. Posso dire che sia un misto di emozioni e sensazioni probabilmente diverse per ogni città e per ogni incontro.
Ercolano ci ha accolte con un cielo un po’ nuvoloso, ma l’ospitalità di Pina e Stefania è stata calda, affettuosa ed avvolgente.
A distanza di un anno ci siamo ritrovate qui con qualche presenza in meno e diverse facce nuove. Il tema conduttore, l’ascolto empatico. Si è analizzata l’importanza di porsi all’ascolto dell’altro in maniera accogliente e consolatoria e la necessità di individuare e dare un nome preciso alle emozioni provate affinché vengano comunicate nel modo giusto. Perché nel momento in cui si prova un disagio è fondamentale riuscire a manifestarlo con parole chiare per affrontarlo in maniera consapevole.
La dimensione e il benessere fisiologico, quando dobbiamo convivere con l’emofilia e non solo, ha un ruolo rilevante. Tuttavia l’esperienza ci insegna che, anche quando il fisico è in perfetta salute, l’umore può risultare pessimo o viceversa. La relazione tra corpo e psiche è tangibile, ma bisogna considerare che, per quanto il benessere del corpo sia influente, non è sufficiente a determinare l’appagamento della psiche, che necessita di un nutrimento specifico.
Le sostanze nutrienti per la vita psichica sono le emozioni e i sentimenti. Le prime hanno radici nel corpo e possono essere definite esperienze soggettive di elevata intensità e di breve durata, caratterizzate da scarso controllo e da immediatezza. I sentimenti, al contrario, sono stati affettivi più duraturi e stabili. Si potrebbe dire che sono emozioni stabilizzate che creano legami.
Possiamo scegliere coscientemente i nostri pensieri, ma l’unica scelta che abbiamo riguardo ai sentimenti è il modo in cui affrontarli.
Questo significa che la nostra emotività può essere educata e l’EDUCAZIONE EMOTIVA permette di entrare in contatto e quindi di conoscere e dare un nome ai propri sentimenti, che altrimenti vivono come ospiti sconosciuti, “diventano un cancro per l’anima”.
Non ci sono sentimenti positivi e negativi. Ci sono sentimenti che ci fanno soffrire o stare bene, ci danno gioia, ci rendono deboli o forti, ci tolgono energia o ce la danno all’insegna delle contraddizioni della vita.
Le storie personali di una sono diventate spunti di riflessione, confronto, conforto e sostegno per tutte le altre. Vicende come l’assunzione di responsabilità e la solitudine nell’affrontare la malattia in famiglia, il dover rinunciare alle proprie aspettative di vita e di lavoro, dolorose come la perdita di un figlio o il rifiuto di un compagno di vita a continuare a sostenerci, ma anche positive come un’adozione riuscita o il raggiungimento dell’equilibrio familiare attraverso sacrifici e sorrisi.
Grazie alla disponibilità, alla capacità di riconoscere il coraggio, la forza d’animo, ma anche la fragilità, il dolore e la tristezza di ognuna delle partecipanti all’incontro siamo entrate nella dinamica della vita, che è oscillazione e movimento tra instabilità ed equilibrio.
Concetta Esposito, Gianna Bellandi, Ombretta Capogna, Stefania Farace
Una importante organizzazione mondiale che segue la talassemia non poteva mancare nella nostra informazione. Il compito è del nostro corrispondente che ne è anche membro eletto.
INDIVIDUATI DALLA T.I.F. ALCUNI PAESI DOVE L’ASSISTENZA VA MIGLIORATA
Abbiamo avuto diverse occasioni, negli ultimi tempi, per ricordare l’importanza che la Federazione Internazionale della Thalassemia (TIF) ha avuto nel corso degli oltre 25 anni dalla sua fondazione soprattutto per quei paesi nei quali la conoscenza delle patologie dell’emoglobina era vicina allo zero e l’accesso alle cure per i pazienti molto complicato.
Nella pagina a fianco potete leggere del prestigioso riconoscimento che l’OMS ha riconosciuto alla TIF per i suoi programmi di salute pubblica in tema di thalassemie e drepanocitosi.
L’attività internazionale, in realtà, è molto complessa ed articolata e richiede, purtroppo, anche tempi lunghi per essere attuata.
Il tempo non è certo qualcosa di cui i pazienti dispongano in abbondanza, soprattutto in certi contesti, ma molto spesso il suo trascorrere dipende più da motivi contingenti legati alle istituzioni con le quali ci si rapporta piuttosto che ad una forma di lassismo da parte di chi cerca di fare.
INTERVENTI PRIORITARI IN AFRICA ED IN INDIA
Negli ultimi tre anni la TIF ha individuato alcuni paesi nei quali l’intervento nei confronti del governo locale è stato definito prioritario, Marocco ed Algeria nell’area africana, lo Yemen in zona mediorientale e l’India.
Non ho esperienza diretta delle attività svolte in India, ma l’enormità dei problemi di un paese dalle dimensioni elefantiache richiede ben altro rispetto all’impegno che una Federazione, seppur organizzata come la TIF, può garantire.
I pazienti dello Yemen, dalle informazioni raccolte dai delegati TIF che l’hanno visitato, vivono una situazione tragica dovuta essenzialmente alla guerra civile in atto da anni nel paese ma anche ad un totale disinteresse del Governo a curare i malati unita ad un’arretratezza culturale spaventosa.
Pensare che questa zona, ricca delle antiche vestigia di epoca greco-romana, era nota fin dall’antichità come l’Arabia Felix.
Per dare un’idea delle barriere culturali che vive il paese, riportiamo il fatto che durante l’esecuzione del prelievo di sangue tra il paziente e il medico che lo esegue non c’è quasi contatto, perché un pannello, con un semplice foro per far passare il braccio, li divide.
UN PROGRAMMA MIRATO PER ALGERIA E MAROCCO
In Algeria e Marocco le attività si stanno intensificando rapidamente grazie ad una situazione politica più stabile e i programmi di formazione al personale sanitario procedono speditamente per colmare i gap culturali esistenti.
A causa dello scarso interesse che la sanità pubblica nutre per questi problemi, soprattutto in Algeria ma anche il Marocco non fa molto di più, risultati positivi a beneficio diretto dei pazienti stentano ad arrivare.
In Algeria non esistono piani governativi per le emoglobinopatie, né epidemiologici né di prevenzione ed è pertanto incerta anche la conoscenza delle percentuali di portatori sani.
Si osserva che la talassemia è prevalente nella zona costiera, mentre la drepanocitosi incide maggiormente nell’interno, ma tutto in modo abbastanza empirico. Il problema della trasmissione del trait talassemico si ripercuote fortemente a causa di una elevatissima percentuale di matrimoni fra consanguinei, oltre il 45%, e per le resistenze culturali allo screening, che comunque non è previsto dallo stato.
I farmaci chelanti sono tutti disponibili ma la maggior parte dei pazienti non è educata a farne l’uso corretto quindi l’efficacia delle terapie è scadente così come la qualità della vita dei pazienti.
L’Algeria è notevolmente arretrata rispetto alla situazione sanitaria che aveva nei primi anni ottanta, sembra che il tempo si sia fermato!
Il Marocco ha beneficiato di attenzioni particolari fin dal 2007, quando un progetto italiano, finanziato dalla Rotary Foundation e sostenuto dall’Associazione Ligure Talassemici, ha consentito di migliorare la situazione globale dell’informazione ed ha inciso, anche se in minima parte, sui bisogni dei pazienti.
Almeno fino al 2000 nessuno si occupava di talassemia e solo dal 2007 in poi si è preso il problema sul serio, grazie alle “spinte” italiane, per cui le carenze strutturali e culturali erano troppo estese perché bastassero aiuti estemporanei.
Dal 2010 grazie all’intervento della TIF si è cercato di dare una maggior organizzazione alle attività che il Governo locale sembrava intenzionato a mettere in atto.
CARENZE CRONICHE DI SANGUE E FARMACI
Ancora oggi, dopo quasi 10 anni, nonostante qualche miglioramento della situazione generale, i provvedimenti realmente efficaci tardano a concretizzarsi ed i pazienti soffrono ancora delle croniche carenze di sangue e farmaci e di un’eccessiva burocratizzazione per l’accesso alle prestazioni.
La talassemia è rientrata nel novero delle malattie croniche coperte da una legge del 2011 che però ancora oggi è applicata solo in alcune aree del paese a macchia di leopardo.
Il Marocco è un po’ il paese del “vorrei ma non posso” dell’“abbiamo questo progetto…adesso lo mettiamo in pratica”, ma “adesso” non si sa bene quando arrivi.
In questi paesi, in cui la talassemia non è percepita come una condizione di vita ma come una vera e propria malattia, è stata fortemente incentivata dalla TIF l’attività associativa, perché l’esperienza insegna che i risultati migliori si ottengono in quei paesi nei quali esiste una forte azione da parte delle associazioni locali e, in questo senso, l’empowerment dei pazienti sarebbe indispensabile, ma qui la parola non ha ancora un gran significato per famiglie che hanno bisogni primari più urgenti da soddisfare.
In Algeria le sette associazioni esistenti si sono appena confederate per unificare la voce nei confronti delle istituzioni, ma con risultati ancora insoddisfacenti.
L’IMPORTANZA DELLE ASSOCIAZIONI DEI PAZIENTI
In Marocco la situazione è molto più arretrata, da questo punto di vista, perché abbiamo faticato non poco a far capire a pazienti e famiglie l’importanza di avere un’associazione che agisca a livello istituzionale per esprimere le necessità dei malati.
In questo paese prevale il fatalismo e l’idea che se “Dio vuole” (In-sha-Allah) una cosa succederà, pochissimi hanno le capacità per capire che senza organizzazione, prontezza di azione e motivazioni forti non si ottiene nulla.
Oggi esistono due associazioni in Marocco, ma una è completamente asservita al medico che la guida mentre l’altra è solo all’inizio della sua attività.
Certo il cambio di mentalità imposto a queste due realtà è diametralmente opposto al loro modo di vivere quindi saranno necessari anni prima di avere risultati misurabili in termini di miglioramento dell’aspettativa e della qualità di vita dei piccoli pazienti.
L’età media dei pazienti talassemici in questi paesi dell’area maghrebina non supera i 12 anni e sono veramente pochi coloro con i quali abbiamo avuto occasione di scambiare qualche parola durante le nostre visite di delegazione, che hanno passato i vent’anni.
Conoscere queste realtà è molto istruttivo perché ci interroga riguardo alla prospettiva con la quale ci poniamo di fronte alle situazioni che viviamo a casa nostra, spesso fonte di insoddisfazione e di frustrazione per ogni minimo contrattempo.
Loris Brunetta
UNITED è una organizzazione sorta da un paio di anni che cerca di raccogliere tutte le realtà associative del territorio nazionale. Quella di Cagliari è stata un’occasione per ribadire l’importanza dell associazioni di volontariato.
DA CAGLIARI UN MESSAGGIO DA UNITED E THALASSAZIONE
È stata una giornata importante questa di Cagliari che mi accingo a raccontarvi.
Importante per gli argomenti, per il ricordo di Antonio Cao, per la partecipazione di molti medici ma soprattutto di molti pazienti.
Il 26 settembre, organizzato da UNITED e da “ThalassAzione”, il congresso dal titolo: “Thalassemia 2.0” ed il 27 settembre il secondo Congresso Nazionale United.
Nella mattinata di sabato si è svolta la cerimonia per intitolare l’Ospedale Microcitemico alla memoria del Prof. Antonio Cao con la presenza di tutte le maggiori autorità politiche e sanitarie della Regione.
Argomenti importanti come la sessualità e la osteoporosi, il punto sulla terapia genica con notizie e dati molto importanti, le emoglobinopatie in particolare la drepanocitosi e la talassemia B major, le nuove prospettive sulla chelazione e le complicamze e le epatopatie.
Argomenti e dibattiti ai quali hanno preso parte un foltissimo gruppo di medici e, soprattutto, di pazienti, argomenti dei quali però ci occuperemo nei prossimi numeri del giornale ed il perchè è presto detto.
Argomenti talmente nuovi ed importanti che necessitano di un controllo giornalistico per non rischiare di dare notizie non certe, per questo chiedo un poco di pazienza ai nostri lettori.
Inizierò quasi dalla fine, dalla parte iniziale del discorso del Prof. Aurelio Maggio il quale ha affermato: “È la prima volta in tanti anni che vengo invitato ad un convegno medico dai pazienti e gli stessi pazienti che mi assegnano il tema su cui parlare.
Questo significa che qualcosa sta cambiando, che questi giovani sono veramente con noi, alla pari e le loro associazioni stanno incidendo sempre più nel contesto socio-politico ed anche medico perchè il loro livello culturale per quanto riguarda la conoscenza delle loro patologie è veramente importante. Non mi meraviglierei, a questo punto, se in futuro me li trovassi a tenere anche relazioni mediche. E questo lo dico con un poco di orgoglio perché mi sento parte in causa”.
Aurelio Maggio ha voluto mettere in evidenza questo aspetto appunto perché è la prima volta in assoluto che due associazioni organizzano un congresso di queste proporzioni con una parentesi significativa nei confronti di un grande scienziato ma soprattutto di un grande medico che ha dedicato la sua vita professionale ai talassemici.
E conosciamole allora queste due realtà ad iniziare dalla UNITED e ce lo spiega brevemente Marco Bianchi che ne è il presidente dalla sua costituzione avvenuta tre anni fa.
“La federazione è nata per cercare di coordinare il lavoro di tutte le realtà associative regionali esistenti e cercare di radicarsi nel territorio nazionale per ottenere la visibilità che serve a livello istituzionale.
Mantenere un livello di cura di eccellenza da parte dei Centri soprattutto in questo momento così delicato e la difesa dei diritti a livello sociale nella società.
Attualmente aderiscono alla United una ventina di associazioni e molte hanno chiesto di farne parte”.
Non conoscevamo invece “ThalassAzione”, nata in Sardegna e ne chiediamo notizia al presidente Ivano Argiolas.
“ThalassAzione nasce a fine 2011 ma poi si presenta alla società civile, agli associati e alla comunità scientifica, il 28 gennaio 2012 e nasce con l’idea di offrire un punto d’incontro a tutte le persone con talassemia, cercare di farle uscire anche dall’ospedale anche con manifestazioni e incontri con i donatori di sangue.
Si proponeva di sostenere soprattutto la donazione del sangue attraverso la sensibilizzazione con congressi, manifestazioni e comunicazione ai media.
In seguito ci siamo resi conto che tutto questo non bastava perché nel frattempo chiudeva la vecchia associazione, quella storica, che tanto ha fatto, quella dei nostri genitori. Ci siamo ritrovati
Con più di 500 persone e abbiamo dovuto incominciare a occuparci di altre questioni, in modo da poter offrire delle risposte anche a quegli associati che presentavano questioni da risolvere.
Ci siamo dovuti attrezzare per analizzare i fenomeni positivi e negativi dei nostri reparti cercando di esaltare quelli positivi in modo tale da poterli condividere con le altre associazioni e pazienti in giro per l’Italia, ma soprattutto cercare di migliorare le situazioni negative che si presentavano nel nostro ospedale microcitemico e poi successivamente l’ospedale di Iglesias, Carbonia, San Gavino, Olbia, Oristano ed altri che nel frattempo si erano associati a ThalassAzione.
Dopo circa un anno abbiamo aperto dei comitati, che poi erano quelli della vecchia associazione che si erano ritrovati con noi condividendone anche le iniziative.
Nel 2014 quei comitati sono diventate delle vere e proprie federazioni tant’è che abbiamo cambiato lo statuto e siamo diventati una federazione regionale.
Contestualmente nasceva United la Federazione Nazionale delle Associazioni dei Talassemici e Drepanocitici, e noi che abbiamo sempre sostenuto l’unità fra le associazioni abbiamo aderito immediatamente dando anche un piccolo contributo per cercare di farla crescere.
Tutt’ora siamo in fase di crescita. Abbiamo Giuseppe Manichedda che è il nostro segretario centrale che è membro di United e stiamo cercando di capire anche attraverso questi congressi nazionali se c’è la possibilità di fare un discorso unitario un po’ sulla linea di Fedemo (La Federazione degli emofilici)cercando di unire tutte le associazioni che tutto sommato rincorrono gli stessi obiettivi, però in maniera non organizzata.
Abbiamo assolutamente la necessità di coordinare gli sforzi per la raccolta dei soldi, i finanziamenti per la ricerca, e quelle che possono essere le azioni nei confronti della questione talassemica in generale come ad esempio il buon uso del sangue.
Ci siamo incontrati a Cagliari per cercare di fare il punto sulla situazione e cosa siamo riusciti a fare assieme ad United.
Oggi ThalassAzione sta mettendo a frutto tutto quello che ha costruito in quasi 4 anni verso la direzione dell’unità generale delle associazioni italiane.
Speriamo che questo sentimento comune venga accolto da tutta la famiglia talassemica italiana”.
A Cagliari abbiamo trovato un entusiasmo coinvolgente e soprattutto molti giovani che hanno deciso di prendere nelle loro mani la loro vita, si sono organizzati e sono determinati a proseguire su questa strada rivolgendo un appello a tutti coloro che fanno parte di questo mondo associativo in tutto il territorio nazionale.
La convinzione è che da sabato e domenica 26 e 27 settembre si siano gettate le basi per un discorso unitario finalmente concreto.
Ma avremo certamente modo di riparlarne nei prossimi numeri del giornale.
DA PASSEGGERI A CO-PILOTI: IL RUOLO DEL PAZIENTE SI ESTENDE (TITOLO)
L’Assemblea UNITED svoltasi a Cagliari a fine settembre scorso, a margine dell’evento organizzato per celebrare l’intitolazione dell’Ospedale Microcitemico al Prof. Antonio Cao, ha consegnato alla comunità italiana delle associazioni per la talassemia e la drepanocitosi alcuni interessanti risultati.
Il primo significativo riscontro è dato dalla partecipazione abbastanza diffusa di molte associazioni provenienti dal “continente”, e questo non era per nulla scontato per una serie di motivi logistici ed economici.
Il secondo risultato è figlio del primo, nel senso che la partecipazione attiva dei convenuti ha consentito un confronto aperto sugli argomenti di maggiore interesse per i pazienti.
L’apertura, infine, ad una collaborazione tra la SITE ed UNITED, manifestata dall’attuale presidente della società scientifica, dr. Gian Luca Forni, sulla base di programmi da definire, può essere riconosciuta come un buon dato di partenza in considerazione della scarsa considerazione data, finora, alla partecipazione dei pazienti da parte della SITE.
Tenendo a mente questi tre punti come ideale linea guida del discorso che andremo a svolgere, vediamo nel dettaglio alcuni passaggi che, a nostro giudizio, meritano di essere rimarcati, soprattutto a beneficio di chi non ha potuto seguire i lavori.
La ricerca di una partecipazione delle rappresentanze dei pazienti nei contesti decisionali che riguardano le politiche sanitarie è una politica voluta e decisa dall’Europa ed imposta ai sistemi sanitari dei cosiddetti Paesi Membri attraverso Direttive e/o Raccomandazioni alle quali l’Italia si sta adeguando con colpevole ritardo ed altrettanta riluttanza.
APERTURA DI UNA COLLABORAZIONE CON LA SITE
Ecco quindi che l’apertura al dialogo, promossa dalla SITE, sia considerata come un riconoscimento anziché ricondotta nella normalità di una dialettica consueta tra un’organizzazione scientifica ed una di pazienti che hanno, spesso obiettivi, coincidenti.
Certamente l’attitudine da parte dell’attuale Presidente SITE alla collaborazione con un’associazione di pazienti nel suo centro di riferimento costituisce un importante presupposto per varare questa collaborazione nell’ottica di valorizzazione delle potenzialità che è in grado di esprimere a beneficio di tutti. Sarà necessario “fiutarci” un po’ per capire quanto di questo comune interesse riuscirà effettivamente a concretizzarsi nei prossimi anni.
La cosa certa è che abbiamo seri problemi da risolvere ed abbiamo bisogno di persone che seriamente si dedichino a risolverli.
L’impegno a rendere fruttuosa questa collaborazione, già dimostrato sia da UNITED che dalla SITE, nel comunicato congiunto sulla terapia genica, costituisce un buon viatico. La collaborazione può solo essere il frutto di un dialogo sullo stesso piano, nel quale la sinergia delle rispettive capacità saprà fare la differenza e dare all’azione comune un valore aggiunto.
Questa ricerca del coinvolgimento dei pazienti richiesta dall’Europa non è un argomento nuovo per questo giornale, ma, a quanto pare, è stato un argomento nuovo a Cagliari perché non ci è parso che gli intervenuti fossero a conoscenza delle dinamiche che si stanno agitando a livello mondiale nel movimento dei pazienti.
La necessità di collaborazione con la SITE richiama fortemente il tema più generale dell’empowerment dei pazienti e su questo argomento si stanno concentrando le attenzioni di parecchi editorialisti di prestigiose riviste scientifiche come Nature e Science, oltre che quelle delle ONG più strutturate.
Proprio sulle proposte che vengono da tali eminenti osservatori, è necessario basare il nostro agire di pazienti nel prossimo futuro.
Non saremo in grado di interloquire e collaborare con nessuno se non riusciremo prima ad identificare rappresentanze consapevoli ed adeguatamente formate per definire con criteri trasparenti e condivisi gli spazi di azione.
Diversamente finiremo per essere strumento inconsapevole degli interessi altrui anziché attivi proponenti di politiche necessarie a migliorare qualitativamente le nostre vite.
Dalla rivista “Science”
Science* lo scorso anno ha pubblicato un editoriale dal titolo “Da passeggeri a co-piloti: il ruolo del paziente si estende” che è significativo, già di per sé, del contenuto dell’articolo.
Questo breve estratto: “Ciò che è iniziato come un’estensione della tutela dei pazienti si è evoluto in una disciplina scientifica emergente mirata ad incorporare i bisogni dei pazienti nei processi di sviluppo, regolatori e di gestione delle nuove terapie”, basta a spiegare come si stia reagendo a livello globale al lavoro delle organizzazioni dei pazienti.
Abbiamo detto più volte che è necessario entrare a far parte dei processi decisionali in merito alle politiche della salute, ai farmaci, alle terapie avanzate, alle scelte strategiche dei trials clinici, ma per farlo è necessario essere sempre più forti, sempre più formati, sempre più dediti al bene comune ed agire, ogni giorno, in maniera professionale, dedicando tempo e risorse, non da volontari che fanno quello che possono nel tempo che hanno disponibile.
In paesi come Stati Uniti ed Inghilterra, all’avanguardia su questo fronte, molti farmaci sono stati ritirati dal mercato e molti trials clinici non sono stati approvati perché ritenuti inutili o ridondanti dai pazienti presenti nelle commissioni preposte, sia dell’FDA che del NHS, come cita un editoriale pubblicato in settembre da Nature**.
Queste politiche di contenimento della spesa sanitaria che nei paesi anglosassoni vengono giudicate positivamente perché utili alla comunità, noi li percepiamo come “tagli”, unitamente a studi indipendenti di post-marketing sui farmaci per verificarne l’effettivo beneficio per i pazienti nel mondo reale hanno portato a consistenti riduzioni nel prezzo dei farmaci e fornito agli enti regolatori nazionali un’efficace arma di contrattazione con le grandi industrie del farmaco.
Politiche di questo genere sono ancora difficilmente attuabili nel nostro paese per tutta una serie di ragioni, politiche, istituzionali e sociali, ma soprattutto perché il malato ormai da molto tempo non è considerato una persona portatrice di una patologia ma un consumatore che va mantenuto nella sua condizione. L’obiettivo è quindi quello di una rappresentanza sempre più forte, formata e consapevole ed è compito nostro saper individuare chi effettivamente possa promuoverne meglio le istanze, lasciando da parte autoreferenzialità, regionalismi e politiche campanilistiche.
La proposta emersa a Cagliari di riconoscere tutte le realtà locali sotto il logo ed il nome di UNITED, annullando, di fatto, le organizzazioni regionali, è la strada del prossimo futuro, ed il passo che sarà necessario fare per dare forza alla nostra azione.
È necessario però crearne i presupposti, a partire dalla rinuncia parziale della sovranità delle associazioni locali; ma qui la domanda nasce spontanea: siamo pronti per questo passo?
Loris Brunetta
Abbiamo poi fatto il punto sulle molteplici attività della Fondazione Paracelso che segue le problematiche dell’emofilia anche nei Paesi in via di sviluppo.
PROGETTIAMO CON GLI ADOLESCENTI
L’8 settembre scorso, mini trolley al seguito, sono partita per Olda, provincia di Bergamo.
A dire il vero, però, questo viaggio iniziò diversi mesi fa con una chiacchierata a Milano, nella sede di Fondazione Paracelso.
L’idea era quella di realizzare un progetto per gli adolescenti in collaborazione con FedEmo e devo dire che la cosa mi sembrò subito entusiasmante.
Così, dopo esserci spremuti le meningi ed aver portato a termine casting ed un paio di incontri preliminari, ci siamo tutti ritrovati presso “Il Borgo Zen”.
Un’esperienza simile l’avevo già vissuta grazie al progetto DNA. Non saprei spiegare come è stato rivedere in questi ragazzi il gruppo di cui io stessa ero stata parte anni fa. Non sono un’appassionata di Harry Potter, ma credo di aver avuto la medesima espressione stranita del famoso maghetto la prima volta che si è trovato davanti ad una foto i cui soggetti erano in grado di muoversi al suo interno.
Da un lato una bellissima istantanea di cui non facevo più parte, dall’altro l’occasione di poter sperimentare qualcosa per la prima volta. Si, forse è stato così.
Uno degli obiettivi era capire quali fossero le esigenze degli adolescenti oggi. Un esempio su tutti: bisogno di informazione.
Prima ho accennato a DNA. All’epoca il bisogno di informazione si traduceva nella necessità che FedEmo divenisse, attraverso sito e social network, veicolo di informazione per la sete di apprendimento dei ragazzi stessi.
Da quanto ho potuto osservare, adesso gli adolescenti sentono di aver acquisito le conoscenze di cui noi ci sentivamo sprovvisti alla loro età e chiedono che ad essere informato sia il mondo intorno a loro.
Una bella vittoria da portare a casa, ma soprattutto il motivo per andare avanti e dar forma a questo progetto con gli adolescenti, perché saranno proprio loro ad aiutarci a tirar fuori, come direbbe Alba, i prossimi step dal cappello pensatore.
Non credo sia possibile racchiudere in un breve articolo quanto è accaduto in quei due giorni, ma mi piacerebbe comunque provare a descriverne i colori attraverso le parole di uno degli 8 ragazzi che erano lì con noi: “È stata un’esperienza meravigliosa, uno “scambio” tra divertimento e serietà. Sono partito con ottime previsioni. Devo dire che non sono state smentite: siamo tutti fratelli uniti da un destino che sembrava diverso per ognuno.
Grazie per avermi ricordato di non deprimermi di fronte alla letali mazzate che ogni tanto l’Emofilia si permette di dare.
Siete tutti, tutti dei grandissimi. Viva il taleggio!!!”
Mirko
L’IMPORTANZA DEL PROGETTO PARACELSO IN ZAMBIA
La visita (la seconda, dopo quella di due anni fa, raccontata per immagini e parole sulla pagina di Fondazione Paracelso; chi ha voglia, scorra la timeline fino all’agosto 2013) costituisce il momento più vistoso di un’attività continuativa nell’ambito del progetto per portare assistenza agli emofilici zambesi.
Il primo viaggio era servito per prendere contatto con i referenti locali (medici, associazione, dirigenti dell’ospedale e politici, compresi un paio di ministri) valutare la situazione e impostare l’intervento, con l’obiettivo immediato di creare le condizioni per l’ammissione alla World Federation of Hemophilia (WFH), a cui tornati in Italia era stato inviato un resoconto dettagliato del lavoro svolto.
Nel 2014 la Zambia Hemophilia Foundation è entrata a far parte di WFH, ma nel frattempo noi non abbiamo smesso di sostenere la piccola comunità dei pazienti diagnosticati (a oggi circa 40) anche attraverso l’invio di farmaci tutte le volte che ne abbiamo avuto la possibilità. Al momento la difficoltà maggiore del Centro emofilia di Lusaka è la mancanza di reagenti necessari ai test di laboratorio, che costano svariate migliaia di euro, una spesa di cui cercheremo di sgravare l’ospedale possibilmente attraverso una donazione da parte della ditta produttrice, così come era avvenuto per il progetto Afghanistan.
In questa seconda visita abbiamo aggiunto la parte ortopedica e fisioterapica, trattando i pazienti e avviando un’iniziale formazione per l’ortopedico e un paio di fisioterapiste dell’ospedale di Lusaka.
Portare assistenza specialistica come quella ortopedica e fisioterapica, oltre a migliorare nell’immediato la condizione dei pazienti che sono stati trattati e a porre le basi di conoscenza perché possano essere seguiti da qui in avanti, ha anche un beneficio aggiuntivo tutt’altro che secondario: quello di far capire a persone che fin qui non hanno avuto niente come la loro malattia possa essere affrontata efficacemente.
Uno dei problemi infatti di un Paese come lo Zambia dove buona parte della popolazione vive in villaggi è far circolare le informazioni.
Ci aspettiamo che le persone che hanno goduto delle cure di Enrica ed Eleonora (fra cui un African doctor, un medico tradizionale) si facciano portavoce presso altri pazienti, testimonial più convincenti e con maggiore capacità penetrativa di quella che avremmo noi.
PASSO DOPO PASSO
Il progetto “Passo dopo passo”, interamente finanziato da Paracelso, rivolto alle persone con emofilia che necessitano di ricorrere alla chirurgia ortopedica, è nato nel 2009 con il trasferimento presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano del dottor Luigi Solimeno, indiscussa autorità mondiale nella chirurgia ortopedica per emofilici e riferimento per i pazienti di tutta Italia. La vicinanza con il Centro emofilia rendeva più agevole l’assistenza ematologica, ma la nuova divisione aveva bisogno di un aiuto segretariale.
Partendo ancora una volta da un bisogno e da una richiesta circoscritta, abbiamo costruito un progetto che ruota attorno alla persona del paziente e contemporaneamente favoriamo l’attività dei clinici.
Accompagnare il paziente nel percorso chirurgico, significa agevolare il suo accesso a detto percorso, anche facendosi carico di necessità accessorie critiche e trovando risposte ai bisogni che via via emergeranno.
A questo fine:
- agevoliamo e ottimizziamo l’accesso alle visite di controllo e alla prima visita, organizzando con il dottor Solimeno gli appuntamenti dell’ambulatorio che, due mercoledì al mese, è dedicato esclusivamente alla presa in carico e alla cura dei pazienti emofilici;
- contribuiamo a gestire l’intero processo ospedaliero, coordinando il lavoro di ematologi e chirurghi, l’organizzazione del prericovero, la degenza operatoria e il trasferimento in strutture riabilitative di eccellenza;
- abbiamo donato all’ospedale un kinetek (apparecchio per mobilizzare l’arto operato) e un polarcare (apparecchio per la terapia del freddo che riduce il dolore e il gonfiore, agevolando sensibilmente il decorso postoperatorio), destinati ai pazienti emofilici per sgravarli dell’impegno e dei costi del noleggio;
- mettiamo a disposizione una foresteria per ospitare pazienti e familiari che arrivano da altre parti d’Italia, allo scopo di aiutarli ad abbattere i costi di un eventuale soggiorno.
Seguire questo percorso richiede partecipazione e competenza.
Lo facciamo con cura, consapevoli delle esitazioni che spesso affiancano un intervento, all’occasione distribuendo qualche parola rassicurante o qualche pacca di incoraggiamento.
Dall’inizio del progetto abbiamo accompagnato più di 300 pazienti.
Per ricevere consigli preziosi e una vera e propria lista di accorgimenti – utile prima del ricovero, durante la degenza e dopo l’intervento – è possibile contattare Fondazione Paracelso e in particolare Cristina Ielo: tel. 02 33004126, email cristina.ielo@fondazioneparacelso.it
“COMINCIAMO DA PICCOLI”
Il progetto Cominciamo da piccoli ha come obiettivo il sostegno alle famiglie dei piccoli emofilici, realizzato affiancando ai genitori una mediatrice familiare fin dal momento spesso traumatico della diagnosi e per i primi anni di vita del bambino.
Dopo un primo incontro alla presenza del medico presso il Centro emofilia di riferimento, la mediatrice familiare potrà recarsi a casa di ciascuna famiglia, dove il suo intervento si svilupperà nel tempo in base alle esigenze che via via insorgeranno.
Sarà suo compito informare puntualmente sugli aspetti pratici della cura e della vita del piccolo emofilico, oltre che aiutare le persone coinvolte a prendere contatto con i propri vissuti e con le proprie risorse.
Intervenire precocemente in questa direzione può aiutare i diretti interessati a costruire un rapporto armonico con la malattia, ad accettarla come un fatto della vita, contenendo ansie e timori spesso ingiustificati. Così facendo sarà possibile evitare che le sorti di tutto il nucleo familiare ruotino attorno alla malattia di uno dei suoi membri, ma anche i rischi dell’occultamento e della negazione, meccanismi difensivi che costituiscono un intralcio nell’affrontare il problema con la necessaria consapevolezza. Per tutto questo, agire in primo luogo sui genitori del piccolo emofilico diventa cruciale per lui stesso: solo loro potranno trasmettergli una visione equilibrata della sua condizione, visione che costituirà un’esperienza fondamentale nella vita dell’emofilico adulto.
ACCORDO A LONDRA PER FORNIRE IL FATTORE VIII IN ECCEDENZA AGLI EMOFILICI DEI PAESI DEL TERZO MONDO
Il 29 giugno, rappresentanti della World Federation of Hemophilia (WFH) e del Centro Nazionale Sangue (CNS) si sono incontrati a Londra per formalizzare il progetto WISH (World Federation of Hemophilia and Italian National Blood Centre for a Sustainable Supply for Hemophilia patients), un programma umanitario orientato a ridurre le differenze tra Paesi a basso reddito e Paesi ad alto reddito nell’accesso ai concentrati di fattori della coagulazione.
DISTRIBUZIONE SENZA SCOPI DI LUCRO
WISH si fonda sulla distribuzione senza scopo di lucro, nell’arco di un quinquennio, di un totale di 150 milioni di Unità Internazionali di fattore VIII, prodotto in conto-lavoro a partire da donazioni di sangue di volontari italiani non remunerati, ed eccedenti il fabbisogno dei pazienti emofilici italiani.
La partnership tra CNS e WFH mira a garantire ai Paesi di destinazione approvvigionamenti di prodotto a medio e lungo termine attraverso accordi specifici tra le Regioni italiane e gli Stati riceventi.
“Il Sistema Sangue italiano, che può contare su un milione e 700 mila donatori volontari non remunerati, è fortemente impegnato a perseguire l’autosufficienza di plasma e di prodotti medicinali plasmaderivati”, – ha dichiarato il dott. Giuliano Grazzini, direttore del CNS – In questo contesto, è nostro desiderio accettare, in collaborazione con la World Federation of Hemophilia, la sfida di promuovere lo sviluppo di progetti etici, trasparenti e sostenibili al fine di estendere e rendere più equo l’accesso alle terapie per i pazienti che ne hanno bisogno nei Paesi destinatari.”
Nell’arco degli ultimi tre anni, 10 milioni di UI di fattori della coagulazione sono stati donati dalle Regioni italiane a Paesi quali Afghanistan, Albania, Armenia, Egitto e India, e ciò ha aperto la strada a ulteriori opportunità offerte dalla cooperazione con la WFH.
“Il progetto WISH è la prova che sono necessari impegno e sinergie a livello globale affinché sempre più prodotti, frutto di donazioni siano disponibili nei Paesi in via di sviluppo” – ha commentato Alain Weill, Presidente della World Federation of Hemophilia – A sua volta, ciò renderà gli aiuti umanitari maggiormente pianificabili e i trattamenti sostenibili. Offriamo il nostro pieno appoggio al Centro Nazionale Sangue e riconosciamo il valore del loro contributo nel raggiungimento dell’obiettivo della WFH di garantire le cure a tutti i pazienti, in ogni parte del mondo”.
WISH è un’iniziativa nata dall’impegno di entrambe le parti per assicurare una risposta efficace alle necessità terapeutiche di quei pazienti che altrimenti, in caso di bisogno, non avrebbero adeguato accesso alle cure.
L’azienda biofarmaceutica italiana Kedrion Biopharma, attualmente unica Titolare delle convenzioni con le Regioni italiane per la produzione in conto lavorazione di prodotti medicinali plasmaderivati, ne ha promosso lo sviluppo e ha contribuito al successo di questo accordo, facendosi carico delle spese regolatorie e dei costi di logistica relativi alle spedizioni di prodotto nei Paesi di destinazione, offrendo in questo modo un prezioso contributo ad estendere l’accesso alle terapie a base di fattori della coagulazione in tutto il mondo.
LA MARATONA DELLA VITA
Anche l’emofilia in gara nella maratona di New York disputata il primo novembre. Hanno partecipato grazie a un progetto della Federazione delle Associazioni Emofilici (FedEmo), un gruppo di 3 atleti di differenti età e gradi di malattia e altri cinque sempre emofilici protesizzati, seguiti dal professore Pier Luigi Solimeno sostenuto dalla Fondazione Paracelso. Il progetto Marathon, nato nel 2013, realizza quindi l’obiettivo per cui era stato concepito e si è avvalso dei professionisti del Marathon Center di Brescia, guidati da Gabriele Rosa, uno dei più grandi Coach nella storia della corsa.
Hanno corso con al polso il bracciale Sa.Me.Da. L.I.F.E., un supporto tecnologico che garantisce una maggiore sicurezza in caso di emergenza/urgenza medica (identificazione della persona da parte dei sanitari e l’accesso ai suoi dati direttamente sul luogo del sinistro, tramite smartphone o computer, evidenziando eventuali aspetti medici da tenere in considerazione).
“Questa Maratona sarà un simbolo di rinnovamento – aveva affermato il giovane Enrico Mazza, sportivo polivalente e membro del comitato Giovani di FedEmo – un nuovo inizio che, spero, porterà molte persone ad essere più consapevoli dei propri mezzi, perché emofilia e sport non sono più due concetti agli antipodi, ma sono diventati un’unica entità.
Con i nuovi farmaci, con la prevenzione e con un’attenta preparazione si può fare sport allo stesso livello di un individuo sano ed è questa convinzione che mi ha spinto e che mi ha spronato”.
Un intervento anche della presidente di Fedemo Cristina Cassone che ricorda come l’associazione sia attualmente impegnata in un tavolo di lavoro insieme all’Associazione Italiana Centri Emofilia (AICE), gli specialisti della medicina dello sport e del C.O.N.I.
“La partecipazione di atleti emofilici alla maratona di New York è stata l’occasione per dimostrare come, nonostante l’emofilia, con la determinazione, la preparazione fisica e le terapie idonee, nessun obiettivo è precluso’’.
Riportiamo nel nostro editoriale la storia dei due gruppi, attraverso due inviati, ognuno attraverso la sua esperienza.
Pensando a come è cominciata su una volante della polizia, questa storia merita davvero di essere raccontata.
È la storia di tre eroi, tre eroi emofilici che hanno affrontato la maratona di New York.
Chi con una caviglia malconcia, chi col raffreddore, chi con qualche anno sulle spalle, ma tutti ugualmente campioni.
“Non finiva mai” e non il percorso (pur essendo una delle maratone più insidiose al mondo con i saliscendi di Central Park e i vari ponti tra i diversi quartieri della grande mela), ma la gente.
Un mare di 55.000 persone che hanno corso quelle 26,2 interminabili miglia, chi per fare un buon tempo, chi per l’amica malata, chi per la nonna.
E tra quei 55.000 c’erano i nostri tre, separati da tre ritmi e tre orari di partenza diversi, dalle mille insidie affrontate e dalle migliaia di persone che hanno corso con loro.
Io ho soltanto cercato di vedere il più possibile di questa corsa strabiliante, cercando tra la folla il cappellino blu e la maglia arancione dei nostri tre “maratoneti” come oramai sono stati battezzati.
Ho preso metro su metro e camminato chilometri per vederli passare coperti di sudore e fatica, talvolta sconforto, ma li ho sempre visti rialzare la testa e andare avanti.
“Se non fosse stato per la gente, non ce l’avrei fatta”.
Infatti, i co-protagonisti di questa corsa sono i newyorkesi, con l’amore incondizionato per i loro “runners”.
Chiunque viene tifato senza nessuna distinzione, di qualsiasi nazionalità, etnia, o religione.
Essere stato tra il pubblico è stata un’esperienza meravigliosa.
Urlare tutti i nomi degli atleti che passavano, incoraggiarli a dare il massimo, a continuare ancora, anche se volevano mollare mi ha fatto sentire parte di questa grande città, mi ha fatto sentire fiero di tutti gli atleti.
Ma mi ha fatto sentire ancora più fiero dei nostri, che correvano per dimostrare che lo sport è un passo avanti verso il benessere del paziente emofilico e che è uno degli elementi più importanti della vita, che non dovrebbe essere mai proibito o trascurato.
In conclusione direi che non c’è bisogno di tante parole, i fatti bastano.
E i fatti li abbiamo.
Abbiamo corso la maratona di New York. Bravi ragazzi!…..
Ma non è finita perchè questi sono i tempi.
Francesco: 5 ore 6 minuti e 37 secondi
Luca: 5 ore 25 minuti e 21 secondi
Enrico: 5 ore 42 minuti e 8 secondi
Missione compiuta
La magica New York ha il grande potere di regalare a tutti la sensazione di essere protagonista.
È bastato scrivere il nostro nome a pennarello sulla maglia per far sì che fosse ripetuto migliaia di volte lungo tutto il percorso da persone di ogni età, etnia, nazionalità e religione da Staten Island a Central Park, passando per Brooklyn, il Queens, il Bronx, Harlem e Manhattan.
Ed è proprio questo che ci ha dato quella spinta in più che ha permesso alla forza di volontà di condurci al traguardo ignorando le suppliche del nostro corpo che imponevano di fermarci.
All’arrivo è stato difficile trattenere le lacrime, infatti qualcuno non ce l’ha fatta.
In questo anno tra di noi si è creato un legame particolare, molto più forte di un’amicizia, una fratellanza. Ricordiamo ancora quando, quasi un anno fa, Fondazione Paracelso, che sostiene il progetto, ci ha fatti incontrare tutti per la prima volta nello studio del dottor Solimeno.
Pochi di noi si conoscevano già, ma abbiamo capito subito che avremmo condiviso un’esperienza incredibile, di quelle che non si scordano mai. Nessuno dei ragazzi ha mostrato il minimo dubbio sulla partecipazione all’ambizioso progetto.
Abbiamo inteso l’importanza di quello che i ragazzi stavano facendo solo dopo alcuni mesi di allenamento, quando la fatica e i rischi hanno cominciato a mostrarsi con tutta la loro forza e quando l’infortunio e l’intervento chirurgico di Gianluca ci hanno travolti, facendoci realizzare che stavamo facendo qualcosa che nessun’altro aveva osato fare: andare contro a tutti quelli che hanno sempre creduto che emofilia e protesi articolari fossero incompatibili con gli sforzi estremi.
La tenacia dei ragazzi, che hanno voluto concludere l’impresa a tutti i costi ignorando il dolore e la fatica, sarà d’esempio per tutti quelli, emofilici e non, che vedono in queste difficoltà dei limiti e non degli stimoli. Ognuno di noi porterà nel cuore il ricordo di quei quattro giorni americani, con la consapevolezza di aver scritto una pagina nella storia della comunità degli emofilici.
Eleonora Forneris, con la sua passione e dedizione, Pier Solimeno, Elisa Mancuso e Dènise Bestetti, con la loro professionalità, Massimo Cavallari, con la sua conoscenza della città e passione per lo sport, Gianpaolo De Poli, con il suo entusiasmo, e Marco Follino, con le sue qualità ancora tutte da scoprire, hanno aiutato i ragazzi ad incanalare la loro volontà e il loro coraggio nella realizzazione di un’impresa storica.
Ci auguriamo che questo sia solo il primo passo di un lungo cammino che porterà tanti altri emofilici a trovare la forza per realizzare i propri sogni.
Simone Scarlato, “Cassano”: 5 ore 44 minuti e 15 secondi
“Un’esperienza unica. Avevo provato più volte ad immaginarla prima di partire ma nulla è come viverla. 42 km di colore musica e calore. Torno a casa consapevole che la forza di volontà e il cuore vanno oltre l’immaginazione…”.
Salvo Anzaldi, “il keniano”: 6 ore e 17 secondi
“Esperienza fortissima, vissuta come il meritato premio dopo un anno di preparazione intensa. Oltre a correre, lungo le strade di New York ho fatto di tutto per godermi i colori della città e il calore della gente. Ce l’ho fatta grazie all’allenamento che, al mio rientro in Italia, mi ha permesso di tornare alla vita di tutti i giorni senza accusare nessuna conseguenza.
Io e i miei compagni d’avventura abbiamo lanciato un messaggio forte che spezza un tabù e consegna a tutti gli emofilici del mondo un pieno di fiducia”.
Gianluca Teraschi, “il buono”: 6 ore 9 minuti e 32 secondi
“Vorrei ricordare questa esperienza con tre grazie: a chi mi ha incoraggiato lungo le strade di NY per 42 km, anche se non mi conosceva, e a chi mi seguito da casa: entrambi sono stati il motore che mi ha spinto soprattutto negli ultimi chilometri.
Agli amici che ho conosciuto in questi mesi di allenamento, che hanno corso con me, che hanno condiviso la fatica e la gioia di un evento unico.
A coloro che hanno creduto che ogni frontiera di ieri, compresa quella medica, è il punto di partenza di domani: tutti insieme, abbiamo spostato la bandiera delle possibilità un po’ più in là!”.
Alberto Audisio, “Batman”: 6 ore 27 minuti e 15 secondi
“Dopo un lungo anno di faticosi allenamenti e sacrifici sotto molti aspetti l’emozione più grande è stata vivere quest’esperienza con serenità e capire che la mia/nostra maratona era già stata vinta lungo tutto il percorso che ci ha portato ad attraversare l’area di NY in lungo e in largo!
Certo, avercela fatta tutti a tagliare il traguardo è un’ulteriore riprova che con le giuste accortezze tra cui la fisioterapia in primis siamo pronti ad affrontare qualsiasi sfida!” .
Roberto Centurame, “Robycop”: 8 ore 37 minuti e 27 secondi
“Ti fai un programma mentale per il giorno della maratona e, proprio quel giorno, appena parti lo perdi.
Sei costretto a camminare, e quando il tuo fisico e le articolazioni rovinate non ce la fanno più, è proprio in quel momento che la forza della mente ritorna e ti trascina per 8 ore, 37 minuti e 27 secondi fino all’arrivo, e oltre…” .
Questo che abbiamo scelto per chiudere il 2015, è stato l’ultimo servizio di un nostro grande amico, Giuseppe Mele, scomparso di recente che ricordiamo con affetto e stima e che si è battuto per tutti gli anni (pochi per la verità) che gli è stato concesso di vivere.
UNITED S’IMPEGNA A FAVORE DEI TALASSEMICI PUGLIESI
La nuova Amministrazione regionale guidata dall’ex magistrato sindaco di Bari, Michele Emiliano, conferma il suo impegno a favore dei thalassemici della Puglia.
Alla metà di ottobre infatti, nella sede della presidenza della Regione a Bari, il rappresentante della macro area Sud della UNITED (la Federazione italiana dei talassemici e dei drepanocitici) dr. Giuseppe Mele, è stato ricevuto dalla delegata ai problemi della Sanità, dott.ssa Paola Povero.
Lo ha accompagnato una delegazione di ragazzi pugliesi composta dal presidente dell’associazione di Bari, avv. Domenico Ferrullo e da due ragazze della provincia di Brindisi, Paola Schirosi (in rappresentanza dell’associazione di Manduria) e Daniela Marasco. Assente invece per problemi sopraggiunti all’ultimo momento, la delegazione dell’associazione di Taranto.
Dopo le presentazioni ed i saluti la dott.ssa Povero ha ascoltato Giuseppe Mele che ha presentato una relazione sui problemi che investono il mondo della talassemia pugliese.
Mele ha anche ricordato che questo incontro è scaturito dalla sua richiesta esplicitata lo scorso 10 luglio, nel corso dei lavori della prima riunione di Giunta regionale, presieduta appunto da Emiliano. Lo stesso ha così ringraziato il Governatore (tramite la sua rappresentante) per aver dato seguito all’impegno preso in quell’occasione.
“Nella nostra Regione – ha poi detto e scritto Mele nella sua nota – i talassemici ricevono la propria cura in Centri o Servizi di Microcitemia”.
Ha poi precisato: “Secondo una nostra stima, i Centri sono: Foggia e San Giovanni Rotondo (per la provincia di Foggia); Bari (Policlinico e Di Venere); Taranto (Osp. SS Annunziata) e Manduria (Osp. Giannuzzi) per la provincia Taranto; Brindisi (Osp. Perrino); Lecce, Casarano e Gallipoli per l’estesa provincia salentina.
Complessivamente i soggetti affetti da talassemia in questa regione dovrebbero essere circa ottocento.
Tuttavia, per avere un numero aggiornato ed ufficiale e per un’analisi sui luoghi di cura – ha aggiunto – invitiamo l’Assessorato regionale alla Sanità a stilare una mappatura dei Centri, nonché a conservare e migliorare la fruibilità di tali luoghi di cura. Inoltre chiediamo di garantire la qualità della terapia e della vita dei soggetti curati.
Succede infatti – ha proseguito – che in alcuni luoghi, per esempio, i ragazzi attendono giorni e giorni per fare una trasfusione.
Così, nel frattempo la loro emoglobina scende a livelli non ottimali. E questa – ha concluso– non si può definire affatto una buona qualità di vita ”.
A questo proposito sono intervenute le due ragazze della provincia di Brindisi che vivono e che hanno vissuto tale situazione.
In particolare Paola Schirosi ha raccontato che, dopo aver organizzato nella scorsa estate alcune iniziative di sensibilizzazione alla donazione di sangue a Brindisi, poco o nulla è cambiato. Pertanto, con disperazione si è vista costretta a cambiare la propria sede di cura.
“Adesso – ha detto – vado a fare la terapia a Manduria, in provincia di Taranto. Faccio meno chilometri per raggiungere questo Ospedale rispetto a quello di Brindisi, tuttavia la cosa più importante è che ho trovato tutta un’altra atmosfera. Ma soprattutto – ha sottolineato – ho avuto le giuste trasfusioni di sangue che adesso mi consentono di tenere livelli di emoglobina ottimale. Ne hanno giovato la mia vita di donna, di mamma e di compagna”.
A tal proposito le due ragazze della provincia di Brindisi hanno chiesto alla Regione un impegno deciso allo scopo di lanciare un’azione di sensibilizzazione continua alla donazione di sangue nel Brindisino ed una efficiente raccolta dello stesso.
Soprattutto attraverso il centro di raccolta mobile dell’autoemoteca.
Inoltre, in attesa dei risultati di questo lavoro, promuovere subito una convenzione con altri centri del Paese per il necessario rifornimento di sangue.
Tornando poi al discorso della mappatura Mele ha anche ricordato che la UNITED annovera tra i suoi obiettivi l’aggiornamento di una stima nazionale. Quella attuale risale infatti al passato e venne curata dal prof. Paolo Cianciulli di Roma.
Stando a questa i talassemici in Italia sarebbero oltre 5700, e i drepanocitici circa 1700. Attualmente però è in fase di completamento un nuovo aggiornamento promosso da UNITED e coordinato dal C.N.R. di Pisa, in collaborazione con la S.I.T.E (la Sociertà Italiana dei Medici di Emoglobinopatie) .
Così, anche a questo proposito, potrebbero essere utili i dati della mappatura chiesti alla Regione Puglia.
In tal modo potrebbe anche nascere un interessante confronto per una più accurata evidenza della situazione reale dei talassemici e drepanocitici in Puglia.
Mele ha chiesto anche un’oculata sostituzione ed una giusta integrazione con nuovi medici (talassemologi) nei Centri o nei servizi di Microcitemia dove gli attuali dirigenti si avviano al pensionamento.
“A questo proposito – ha detto – facciamo presente che quelli che lasceranno i reparti sono figure sanitarie che non possono essere rimpiazzate da medici generici o semplici ematologi.
La talassemia non è infatti una normale patologia ematologica ma una malattia che comporta diverse complicanze e problematiche connesse.
Così, allo scopo di far fronte nel giusto modo a questa particolare morbilità, servono professionisti che siano particolarmente addestrati alla specificità della talassemia ed alle sue complicanze.
Da una riunione tenuta tra le associazioni pugliesi (svoltasi lo scorso 27 giugno a Bari) – ha raccontato Mele – è scaturito che, al momento, tale problema interessa drammaticamente i centri di Taranto e di Bari”.
Per sopperire all’assenza del presidente dell’associazione ionica, Mele ha anche illustrato la storia e l’attuale peculiarità del Servizio di Microcitemia di Taranto (dove sono in cura 142 pazienti), mentre per la situazione barese ci ha pensato il rappresentante di questa utenza, l’avv. Domenico Ferrullo.
Quest’ultimo ha illustrato la situazione che vivono i talassemici del barese che ricevono le proprie cure nel locale Policlinico. Qui, in pratica ci sono talassemici bambini, ma anche giovani adulti che vengono curati in pediatria, mentre altri (al di sopra dei 30 anni) sono curati in Ematologia. A questo proposito Ferrullo ha sottolineato che sarebbe opportuno un accorpamento dei due centri che insistono nella stessa struttura, onde evitare una inutile dicotomia ed un differente trattamento terapeutico.
Ha ripreso poi Mele chiedendo il ripristino dell’istituto del DAY HOSPITAL per la terapia dei talassemici pugliesi e la soppressione del “Day Service”.
“Quest’ultimo status sanitario – ha detto – si riflette indirettamente sulla cura dei nostri pazienti poiché comporta diversi e pesanti problematiche.
Tra questi il tempo che medici ed il personale delle strutture devono dedicare alla prescrizione ed l’archiviazione delle ricette. Tempo che li impegna oltre il dovuto. Tuttavia la conseguenza più assurda del Day Service è stata la soppressione della cartella clinica.
Un provvedimento incredibile, in un’era in cui – ha aggiunto Mele – dovremmo avere la cartella computerizzata allo scopo di permettere al talassemico di andare in giro per il mondo e presentare la stessa, nei nosocomi dove può aver bisogno di essere ricoverato, per la lettura dei dati!
Invece, assurdità delle assurdità, a fronte di questa necessità si sopprime addirittura anche quella cartacea. Incredibile veramente!”
Infine il rappresentante UNITED del Sud Italia ha chiesto la concessione gratuita (dietro piano terapeutico compilato dal medico talassemologo che segue i pazienti) dei FARMACI ENDOCRINOLOGICI. Cosa che avviene in altre Regioni d’Italia (ma non in Puglia!).
“Dopo aver ribadito – ha detto – che il talassemico deve sottoporsi a periodiche consulenze cardiologiche ed epatologiche, anche la figura dell’endocrinologo è diventata essenziale nella cura della talassemia.
Tutto questo – ha aggiunto – qualora ci fosse stato ancora qualche dubbio, è stato ribadito nell’ultimo convegno scientifico organizzato a Cagliari dalla UNITED il 26 Settembre 2015, dal dott. Maurizio Poggi (di Roma) e dalla dott.ssa Danesi (di Milano). Tuttavia la consulenza endocrinologica a poco serve se poi il paziente pugliese non può avere accesso ai farmaci che sono tutti a pagamento.
A completamento di tutto – ha concluso – aggiungiamo che la spesa che la Regione verrebbe a sostenere per l’erogazione gratuita, varrebbe di gran lunga il risparmio in termini economici e sociali per le conseguenze (della non assunzione di questi farmaci) che si registrano sull’apparato osseo e sull’assetto psicologico del paziente”.
Dopo aver attentamente ascoltato tutti limitandosi a poche e brevissime interruzioni per porre domande di chiarimento, la dottoressa Povero ha concluso l’incontro con un suo commento.
“Ascoltando voi ed altre categorie di utenti cronici della sanità pugliese – ha detto – sto maturando la convinzione che c’è nella nostra Regione, una grande disomogeneità di situazioni e di servizi terapeutici.
Noi – ha commentato la delegata alla Sanità del Governatore Emiliano – dobbiamo invece, lavorare insieme per ottenere un’ottimale omogeneità di trattamento su tutto il nostro, vasto territorio”.
L’incontro si è quindi concluso con l’impegno di mantenere un canale di informazione attivo tra Amministrazione regionale e UNITED, e con l’esplicitazione della volontà di porre presto mano a sostanziali modifiche migliorative alla situazione dei talassemici in Puglia.