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ABBIAMO PARLATO DEI CENTRI MEC E DI TERAPIA CON IL PROF. MANNUCCI

Nel mese di novembre dell’anno scorso abbiamo pubblicato un’intervista alla prof.ssa Flora Peyvandi, direttrice del Centro Emofilia “Bianchi Bonomi” del Policlinico di Milano (vedere le pagine 4/8 di EX novembre /dicembre – n.d.R.) nel contesto di un progetto informativo sull’organizzazione dei Centri MEC nel nostro Paese.
In questo primo numero del 2023 abbiamo intervistato il prof. Mannucci per fare il punto sull’attualità dell’assistenza clinica agli emofilici. Gli abbiamo chiesto in pratica una sorta di “lettera magistrale” e la prima domanda è stata quindi proprio sul funzionamento dei Centri MEC.


Alla luce dell’attuale crisi della sanità pubblica e in riferimento alla nostra intervista alla prof.ssa Peyvandi nel numero di novembre dell’anno scorso, come vede strutturati i centri MEC nel futuro?
“Avete fatto un’ottima intervista a Flora Peyvandi ed io sono d’accordo con lei: i Centri ci sono, ma talvolta sono inadeguati perché seguono pochi pazienti, hanno scarse strutture di supporto, anche come laboratorio (che una volta c’era) e quindi hanno grandi difficoltà nell’assistenza.
Apprezzo il concetto dell’Hub & Spoke, un Centro principale e altri satelliti (come i raggi che si dipanano dal mozzo della bicicletta), solo se però vi è un’effettiva collaborazione e dove l’Hub esercita un’azione maieutica non oppressiva e gli Spoke collaborano effettivamente con il centro Hub.

In proposito di quanto affermato dal prof. Mannucci abbiamo ricevuto il testo della delibera regionale che ha la data del 28 dicembre 2022 nella quale si definiscono il Centro Hub ed i Centri Spoke:
Presidio per Difetti ereditari trombofilici e Malattie emorragiche congenite (Centro Hub):
Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
(Centri Spoke):
Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia
IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano
Ospedale di Cremona
Ospedale L. Sacco, Milano
Ospedale Niguarda, Milano
Ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo
Spedali Civili di Brescia – Ospedale dei Bambini;

Questo è lo schema migliore che in Italia non è ancora implementato, salvo in Regione Emilia-Romagna e che la Lombardia stessa ha approvato soltanto molto recentemente.
In Italia abbiamo 50 Centri, ma che funzionino con questo sistema ce ne sono pochi.
Temo che il motivo sia, almeno in parte, che l’industria farmaceutica ha interessi a che ci siano tanti piccoli Centri: per esempio quando l’immunotolleranza era di moda, bastava che un Centro avesse un paziente che utilizzasse questa terapia per diventare fonte di reddito per loro.
Quando arriverà la terapia genica, gli Hub non potranno che essere pochi e i Centri dovranno collaborare con loro per realizzare questa terapia che richiede controlli e strutture particolari.
Ma ci vorrà parecchio tempo in Italia per l’approvazione della terapia genica e credo che, mentre molti criticano il fatto che AIFA ci metta almeno due anni per approvare un farmaco dopo l’EMA, io ritengo invece che questo ritardo dia benefici, perché alla fine in AIFA riescono ad ottenere prezzi migliori rispetto ad altri paesi (vedi farmaci per l’epatite C e anche Hemlibra).
Se vogliamo evidenziare quali sono stati invece i recenti progressi nella cura dell’emofilia e quelli che verranno, mi rifarò ad un mio articolo che sarà pubblicato in marzo 2023 e che è stato commissionato in occasione del ventennale della rivista Journal of Thrombosis and Haemostasis della Società Internazionale di Emostasi e Trombosi, di cui sono stato il primo editor.
Nell’articolo racconto come negli anni 50/60 le uniche terapie erano sangue, sangue e ancora sangue, riposo a letto e ghiaccio, e che fui fortunato di trovarmi ad Oxford nel 1964 quando Judith Graham Pool, nel Centro Emofilia guidato da Rosemary Biggs e Gwen Mc Farlane, mi insegnò a preparare il crioprecipitato, che utilizzai per iniziare un programma per l’emofilia al mio ritorno a Milano.
Nel 1968 cominciai a trasmettere il metodo e la mia esperienza di Oxford al Centro Trasfusionale dell’Avis di Milano, dando così vita al programma nel centro del Policlinico, che inizialmente era appunto basato sul crioprecipitato con cui abbiamo fatto anche interventi chirurgici d’urgenza, prima assolutamente improponibili.
Naturalmente abbiamo avuto dei problemi per conservarlo in congelatore, ricostituirlo e infonderlo ai pazienti goccia a goccia, e solo in ospedale: ma è stato ugualmente un gran passo avanti verso quella che sarebbe stata in seguito la terapia più moderna per l’emofilia.
Il successo della decade degli anni 70, che sono stati anni bellissimi, è stato quando, basandosi spesso sul principio della crioprecipitazione, alcune case farmaceutiche come Hyland, Cutter, Immuno, Kabi e Biagini hanno prodotto concentrati plasma derivati di FVIII e FIX che permettevano di fare, rispetto al crioprecipitato, l’infusione endovena tramite siringa.
Ciò ha portato alla terapia domiciliare e all’autoinfusione, che senza questi prodotti sarebbe stata impossibile.
Purtroppo alla fine degli anni ‘70, inizio ’80 c’è stato il periodo terribile dell’Aids e dell’HCV e tuttora abbiamo assistiti che ne pagano le conseguenze, anche se molti passi avanti sono stati fatti nella terapia.
I progressi sono anche legati al fatto che la tragedia dell’Aids e dell’epatite ha stimolato la ricerca, portando al clonaggio dei geni dei FVIII E FIX e alla produzione alla fine degli anni 80 del FVIII ricombinante e del rFIX successivamente.
Arriviamo quindi agli anni 90 con questi ultimi prodotti disponibili in quantità illimitata, senza problemi di trasmissione di infezioni, e il cui utilizzo permetteva la prevenzione delle emorragie e non si limitava al trattamento episodico delle stesse, che era stato il sistema prevalente fino ad allora.
Avendo disponibili questi prodotti, sia in Italia che in altri paesi, si comincia ad applicare la profilassi su larga scala.
Così già in quegli anni l’aspettativa di vita dei pazienti emofilici è diventata pari a quella del maschio non emofilico, ben migliore dagli anni di sopravvivenza del paziente negli anni ‘60.
Naturalmente l’aspettativa di vita va di pari passo con la qualità della vita (QdV).
Se la profilassi è stato un grandissimo vantaggio, una malattia cronica come l’emofilia fa comunque sì che la QdV non sia quella desiderata ed è per questo che i nostri assistiti guardano con aspettativa alla terapia genica di cui parleremo dopo.
Tornando agli anni ‘90, è anche il periodo dei prodotti per gli emofilici con inibitore, che hanno permesso di fermare le emorragie (Novoseven, FEIBA) e dell’eradicazione dell’inibitore con l’immunotolleranza: grazie ai colleghi di Bonn, che svilupparono una teoria veramente innovativa e che inizialmente sembrava assurda perché progettava di eradicare l’inibitore somministrando il FVIII ripetutamente e in grandi dosi.
Ora sappiamo che l’immunotolleranza è efficace in 2/3 dei casi di inibitore, soprattutto quelli presi all’inizio dello sviluppo di questa complicanza”.

Cosa è cambiato più recentemente?
“Arriviamo al terzo millennio: i ricombinanti vengono sempre migliorati, come anche la possibilità di somministrarli in piccoli volumi.
In questo decennio è stato dimostrato per la prima volta con uno studio randomizzato che la profilassi è più efficace della somministrazione episodica legata agli episodi emorragici.
Quindi il primo decennio del nuovo millennio è stato soprattutto un periodo di consolidamento.
Però l’arrivo dei farmaci per l’HCV ha sostanzialmente tolto dal rischio di cirrosi molti dei nostri pazienti, per cui attualmente l’HCV è una malattia cronica facilmente gestita, perché l’arrivo e la disponibilità per tutti i pazienti di questi farmaci ha permesso l’eradicazione del virus dell’epatite C e quindi la guarigione.
Ciò non toglie che i pazienti guariti dall’epatiti croniche vadano sorvegliati con un accurato follow-up specialistico epatologico, per monitorare i rischi legati a complicazioni quali il carcinoma epatocellulare.
Arriviamo così all’ultimo decennio 2013-2023, quello in cui ci sono stati ulteriori spettacolari progressi.
E spiego quali sono per me i motivi di questi progressi quasi miracolosi.
Innanzitutto, non bisogna dimenticare che il successo della profilassi è legata alla buona adesione, perché è una terapia efficace ma richiede somministrazioni frequenti, soprattutto nell’ emofilia A. C’è stato quindi un primo passo avanti con i prodotti ad emivita prolungata e poi con quelli sottocute, attualmente solo l’Emicizumab (Hemlibra).
I prodotti a lunga emivita sono stati senza dubbio un vantaggio, grazie al contributo di alcuni ricercatori che hanno sviluppato i metodi, ma anche perché nella scena dell’emofilia è entrata Big Pharma, cioè da un gruppo di case farmaceutiche fra i 10 maggiori produttori di tutti i farmaci.
Per l’emofilia ricordiamo Pfizer, Sanofi, Roche e Takeda.
Queste aziende sono tutte Big Pharma e sono tutte entrate nella scena dell’emofilia abbastanza tardi, ma hanno subito compreso che i loro prodotti avrebbero trovato il consenso dei pazienti essendo assai efficaci.
I prodotti di FIX a lunga emivita hanno funzionato molto bene nell’emofilia B, permettendo infusioni endovenose una volta ogni 7/10 gg: e questo è stato un progresso colossale!
La situazione dei prodotti a emivita prolungata per l’emofilia A è stata finora meno buona, perché si è ottenuto si un miglioramento, ma dal punto di vista pratico esso si è concretizzato in una riduzione modesta del numero di infusioni: in poche parole, da un’iniezione a giorni alterni ad una ogni tre giorni nella maggior parte dei casi.
Ciò è legato al fatto che l’emivita del FVIII nel plasma è strettamente legata all’emivita breve del fattore von Willebrand, e ciò spiega perché i vantaggi sono stati finora limitati: anche se è stato sviluppato un prodotto di FVIII che ha i requisiti di essere indipendente dall’emivita del FvW e che si somministra efficacemente per endovena una volta in settimana: ma purtroppo non è stato ancora registrato!
Ricordiamo poi il problema degli inibitori, perché i prodotti bypassanti (Novoseven e Feiba) sono stati e sono molto utili per fermare l’emorragia, ma non lo sono per la profilassi, avendo un’efficacia ancora più breve del FVIII.
Quindi bisognerebbe somministrarli più volte al dì!
La profilassi, che è diventata già negli anni 90 un fatto acquisito per gli emofilici senza inibitore, era praticamente impossibile per coloro che sono affetti da questa complicazione.
Devo infatti dire che inizialmente l’emicizumab è stato sviluppato soprattutto per i pazienti con inibitore, con lo scopo di evitare le infusioni endovenose e sostituirle con una iniezione sottocutanea: che è pur sempre una puntura, è invasiva ma preserva le vene.
Ciò ha permesso ai pazienti con inibitore di fare profilassi con iniezioni una volta alla settimana o addirittura ogni 10-15 gg”.

Come è stato sviluppato questo farmaco per via sottocutanea?
“Lo studio di laboratorio dell’Emicizumab inizia nel 2000 e circa 12 anni dopo Shima e i suoi colleghi a Nara in Giappone cominciarono ad utilizzarlo nei pazienti con emofilia A con inibitore, ma lo sviluppo clinico dell’anticorpo monoclonale ACE 910 (Emicizumab) iniziò su larga scala solo nel 2015, in collaborazione con Chugai, Genetech e Roche.
Vorrei ricordare che il vantaggio di emicizumab, che agisce come il FVIII attivato, è di essere subito efficace e non aver bisogno di attivazione: ma ci sono anche alcuni svantaggi, perché non viene regolato e inattivato dalla proteina C attivata, come invece si verifica per il FVIII vero e proprio.
La profilassi col FVIII necessita somministrazioni frequenti e quindi avete dei picchi e poi il FVIII scende, mentre qui ci sono dei livelli costanti: che sono naturalmente un vantaggio perché con questa iniezione sottocutanea si ottiene un livello di coagulazione stabile, evitando gli up&down, con il vantaggio per la realizzazione pratica della profilassi per i nostri assisti con o senza inibitori oltre a quello della somministrazione per via sottocutanea.
Quindi l’Emicizumab è stato un grandissimo passo in avanti in Italia.
Credo che ormai uno su due emofilici A usi questo farmaco, che il tetto non sia ancora raggiunto, lo sarà fra due, tre anni.
E c’è da farsi domande sulle future terapie, compresa la terapia genica, rispetto a un farmaco così efficace, pratico e abbastanza scevro da effetti collaterali.
Il problema della trombosi ha preoccupato, e dal punto di vista biologico è plausibile che il rischio sia aumentato: perché c’è un livello costante di coagulazione, che è vantaggioso per evitare le emorragie perché evita “quel su e giù” di ipocoagulabilità con il FVIII.
Però c’è il problema di non essere inattivato dall’anticoagulante naturale, la proteina C attivata.
C’è stata anche una grossa sfortuna perché vi sono stati degli effetti collaterali di tipo trombotico proprio durante gli studi registrativi, che vengono in genere eseguiti su popolazioni altamente selezionate proprio per evitare gli effetti collaterali. Questo è il problema di tutti i farmaci, perché anche quando non ci sono problemi negli studi registrativi poi vengono spesso fuori dopo, quando vengono dati in vita reale a pazienti meno selezionati di quelli che sono scelti per questi studi di approvazione.
Devo peraltro riconoscere che gli studi registrativi che hanno portato alla registrazione di Emicizumab sono i più grandi mai fatti nel campo dell’emofilia, avendo raccolto complessivamente più di 500 pazienti, quando normalmente se uno studio registrativo arruola 100-200 pazienti sono già tanti.
Quindi a me hanno molto preoccupato i sei episodi di trombosi sviluppatisi durante gli studi registrativi.
Devo dire però che il problema della trombosi è stato in gran parte ridimensionato, perché il farmaco, una volta approvato, è stato usato da decine di migliaia di persone in tutto il mondo e visto con il denominatore diventato così ampio (20.000 e più casi trattati) il numeratore è molto modesto, nel senso che i casi di trombosi che si sono sviluppati sono solo 36.
Quindi la sorveglianza deve continuare e bisogna sempre essere coscienti di questo rischio potenziale.
Per cui per i pazienti più anziani, soprattutto quando sarà disponibile il FVIII a veramente lunga emivita di cui sopra, io eviterei l’emicizumab, anche se capisco che al momento sia la terapia d’elezione in tutti gli altri casi e soprattutto nei pazienti con inibitori.
Naturalmente anche l’emicizumab ha i suoi limiti, come la necessità di somministrazioni invasive e ripetute, nonché il fatto che i nostri assistiti non guariscono nemmeno con l’emicizumab dalla malattia cronica.
E la guarigione, come vedremo, è la promessa, attualmente non ancora maturata, della terapia genica”.

Come si è arrivati all’utilizzo di questi anticorpi monoclonali nel campo dell’emofilia, utilizzati soprattutto nella terapia oncologica e in altre malattie e quale, secondo lei il limite del loro utilizzo?
“Emicizumab è un monoclonale particolare, essendo bispecifico, diretto sia sul FX, che sul FIX e quindi da questo punto di vista è stato molto innovativo.
I ricercatori giapponesi hanno dovuto screenare decine e decine se non centinaia di anticorpi monoclonali per produrlo, e lo scopo era proprio quello di mettere insieme il FIX attivato e il FX in modo da riprodurre l’attività del FVIII attivato come avviene normalmente sulla superficie delle piastrine.
Quindi l’esperienza terapeutica precedente con i monoclonali è stata utile per trovare l’idea di identificare degli anticorpi bispecifici che legassero insieme questi fattori, mentre di solito i monoclonali erano rivolti soltanto ad un fattore o a una sostanza.
Altri problemi, per ora, non si son verificati oltre a quello ridimensionato della trombosi.
Per esempio, lo sviluppo dell’anticorpo antifarmaco si è rivelato un problema di scarsissima incidenza, 1% in tutti i casi (uno purtroppo è capitato a noi a Milano).
Certamente, come per tutte le terapie efficaci e come per tutte le terapie biologiche, bisogna sempre andare con i piedi di piombo, cioè considerare che gli effetti collaterali si possono sempre verificare e per questo la sorveglianza è estremamente importante”.

Cambiando argomento, come lei sa, molti Centri sono nati dagli anni settanta in poi, anche perché c’era l’interesse dei medici.
Ora invece abbiamo il problema della carenza di personale, perché spesso non vengono sostituiti i professionisti che vanno in pensione.
A questo punto è importante quello che il Policlinico di Milano ha fatto fin dall’inizio: l’interfacciamento con l’università, che ha prodotto la formazione di personale medico, cosa che invece in tantissimi altri posti non esiste.
“Comunque resta per tutti il problema del reclutamento, perché se è vero che non ci sono giovani non si sa perché ai miei tempi l’emofilia era una specialità molto attrattiva, e ora non lo è più!
Il Centro di Milano di cui io ero Direttore, è stata sede di una scuola di specializzazione in Ematologia e tutti i miei allievi vengono da lì, da Flora Peyvandi a Gringeri, Santagostino, Mancuso, Carpenedo, Lodigiani.
Vengono tutti da questa scuola di specialità, ma è fondamentale avere anche competenze di Medicina Interna dal momento che i pazienti invecchiano. L’importante non è tanto se i medici che si occupano dei nostri assisiti siano ematologi, pediatri o internisti, l’importante è che si occupino bene di emofilia! L’importante è conoscere i problemi, e lo stesso discorso vale per l’internista, l’ematologo, il reumatologo, che sono tutte persone che vano bene purché acquisiscano profonda conoscenza dell’emofilia.
Mi ripeto: purtroppo francamento non so perché non è più attrattivo occuparsi di emofilia!
Il problema non è la specialità, è la vocazione e lì francamente non credo che si possa fare molto di più per stimolare i giovani di quanto non facciano AICE e SISET, e anche l’industria farmaceutica”.

La domanda finale: cosa pensa della terapia genica e della prospettiva di guarire l’emofilia?
“Quando incontro qualche genitore, soprattutto di bambini e giovani, e racconto tutte queste belle cose sui grandi progressi della terapia, la domanda è però sempre una:” Sì va bene, ho capito prof., ma quand’è che avremo la guarigione dall’emofilia?”
La terapia genica (e naturalmente vedremo in seguito quali sono ancora i suoi limiti e i problemi) è vista come la sola reale possibilità di guarire dalla malattia cronica: ma non dimentichiamo che i bambini sono esclusi dalle attuali terapie geniche e secondo me lo rimarranno per un periodo abbastanza lungo.
Per delineare il quadro attuale, ricordo che il primo tentativo di terapia genica dell’emofilia è stata fatta nel 1996 in Cina, paese avanzato tecnologicamente che ovviamente che non voleva passare attraverso tutta la trafila dei crioprecipitati, concentrati plasmatici e ricombinanti.
Il primo tentativo cinese non è andato a buon fine, ma molti altri si sono messi a lavorare in questo ultimo decennio 2010-2020: soprattutto sui vettori, cioè questi trenini che trasportano il gene e che sono per ora solo dei virus non patogeni che vanno a inserirsi nelle cellule che producono il fattore.
Tutti i vettori hanno finora come mira l’epatocita, la cellula del fegato.
Il fatto è che mentre il FIX viene normalmente sintetizzato nell’epatocita, il FVIII viene sintetizzato dalle cellule endoteliali dei sinusoidi del fegato
A mio avviso, questo spiega almeno in parte perché nella terapia genica i risultati sono stati più soddisfacenti con l’emofilia B che con l’emofilia A, anche se in Europa la registrazione del primo prodotto ha riguardato la terapia genica per l’emofilia A, mentre il primo per l’emofilia B è stato registrato negli Stati Uniti.
Comunque, finora praticamente tutti gli studi di terapia genica, sia quelli conclusi che hanno portato all’approvazione che quelli in corso, hanno usato come vettore il virus adeno-associato, che come il parvovirus non è patogeno per l’uomo e ha la capacità di veicolare quantità di DNA abbastanza cospicue. Gli studi utilizzando questo vettore e sue variazioni hanno portato attualmente all’approvazione di un prodotto per l’emofilia B e un prodotto per l’emofilia A.
Ci sono altri studi che sono in fase avanzata sia per l’emofilia A, che per l’emofilia B.
Comunque, essenzialmente i prodotti attualmente approvati ma non in Italia sono due.
Ma quali sono i limiti?
Ritengo che la terapia genica ideale debba basarsi su una sola somministrazione del vettore e del transgene e che valga per tutta la vita, naturalmente con un costo ragionevole e che offra una risposta terapeutica con costante presenza del fattore nel plasma senza dar luogo ad effetti collaterali.
Sostanzialmente noi ora sappiamo che questi vettori sono capaci di indurre dei livelli misurabili di fattore e anche livelli sufficienti per trasformare l’emofilia grave in un’emofilia lieve.
Quali sono però i problemi?
Che non dura, nel senso che, soprattutto per l’emofilia A, a poco a poco la produzione di FVIII diminuisce con un progressivo declino nel plasma.
Sembra che questo non avvenga o avvenga molto meno per il FIX ma è ancora presto per dirlo conclusivamente. Secondo me ciò è legato a quello che vi ho detto sulla sede di sintesi dei fattori.
Ma soprattutto il problema è che gli effetti collaterali ci sono stati eccome perché, soprattutto per l’emofilia A, questi vettori inducono una risposta immunitaria da parte dell’organismo per cui viene danneggiato il fegato e si ha un aumento delle transaminasi: che i buontemponi chiamano transaminite.
Io trovo che sia un termine orrendo, perché mi ricorda quando negli anni settanta abbiamo dimostrato che c’era un aumento delle transaminasi del siero dei pazienti emofilici e tutti hanno detto “…ma si, va bene, però può darsi che sia dovuta allo stato infiammatorio…”.
Ma per me e per il Prof. Colombo, epatologo di grande fama ed esperienza, l’aumento delle transaminasi significava e significa ancora che l’epatocita va in necrosi, cioè muore e quindi io odiavo e odio tuttora questo termine orrendo.
Comunque questo problema dell’aumento degli enzimi di origine epatica è un problema grande: perché praticamente si verifica con l’emofilia A in quasi tutti i pazienti (80% di casi), per l’emofilia B solo nel 20%.
Perché la differenza?
Credo che si torni ancora al discorso della sede naturale e di quella non naturale in cui il virus che veicola il transgene va a collocarsi.
E’ vero che assumendo i corticosteroidi questo effetto nocivo scompare, però in alcuni casi per farlo scomparire hanno dovuto somministrare questi farmaci per un anno e più. I corticosteroidi sono farmaci eccellenti, ma non sono acqua fresca e naturalmente tutti i loro effetti collaterali si sono puntualmente verificati.
Poi c’è l’imprevedibilità della risposta: è vero che in media i valori del fattore diventano come quelli dell’emofilia lieve, e quindi in sostanza dovrebbe prevenire ogni emorragia spontanea ed ottenere il mitico zero-bleeding a cui i nostri pazienti aspirano.
Però quello che è successo in realtà, sia per l’emofilia A che per l’emofilia B, è che in una percentuale non trascurabile di pazienti il fattore VIII e IX non aumentano e c’è poi un’altra percentuale che invece risponde troppo andando a livelli oltre il 150%, sia per il FVIII che FIX, e ci sono stati quindi anche episodi di trombosi.
Quindi questi sono i problemi attuali della terapia genica e, ripeto, sia la sostenibilità (si allude al costo per ogni singolo trattamento sui 2/3 milioni o più di dollari) che il fatto degli effetti collaterali.
Vi è uno scenario per il futuro, anche per la terapia genica.
Per esempio, stanno pensando a vettori virali che possano integrarsi con il genoma: con tutti i problemi che questo può creare però anche con il vantaggio che si possono trattare i bambini”.

Con questo scenario, cosa raccomanderebbe agli assistiti?
“Riguardo l’emofilia B, ecco come vedo la scelta terapeutica: abbiamo la terapia genica registrata in USA, ma non in Europea né in Italia.
Abbiamo però almeno due prodotti a lunga emivita che sono attualmente molto efficaci, anche se non abbiamo ancora un equivalente sottocutaneo dell’emicizumab.
Pensiamoci quindi bene prima d’imbarcarci con terapie di cui c’è poca esperienza.
Poi, pur tenendo presente che l’emivita dei prodotti ricombinanti di FIX è efficacemente lunga, quando forse ci sarà un prodotto per via sottocutanea se uno è stufo di pungersi le vene può considerare quello.
Quindi aspettiamo un attimo per la terapia genica, almeno che ci sia maggiore esperienza nella vita reale.
Per quanto riguarda il FVIII, l’emicizumab è un grande farmaco e, secondo me il 70% dei pazienti con e senza inibitori lo fanno o lo faranno: gli unici casi in cui sarei cauto, sono, come ho detto, i più anziani o pazienti con comorbilità a rischio di trombosi.
Comunque, voglio ovviamente sottolineare la necessità della personalizzazione della cura, caso per caso.
Sicuramente per una persona che ha il diabete, o è ipertesa e magari con problemi renali, io userei il FVIII a veramente lunga vita se e quando verrà registrato.
Per quanto concerne la terapia genica, io vorrei aspettare perché spero proprio che questo problema delle transaminasi sia risolto.
Spero anche che sarà risolto anche il problema dell’imprevedibilità della risposta.
Rimane aperto anche il quesito sulla durata: per cui spendere 2 milioni e mezzo o più, quando poi si devono spendere di nuovo perché non è una cura definitiva, è un problema grosso!
Concludendo, ribadisco che i progressi che ci sono stati, sono stati fantastici e veramente incredibili per una malattia che in fin dei conti già vent’anni, se non forse già trent’anni fa, aveva un’aspettativa di vita normale.
Ci sono stati tutti questi continui progressi e ne stanno arrivando altri.
Credo quindi che bisogna sempre essere molto cauti e naturalmente è inutile dire che bisogna personalizzare e credo che vedremo di più nei prossimi 4/5 anni di questo decennio peraltro già miracoloso”.