Per chi si occupa di thalassemia e, più in generale, di emoglobinopatie, gli ultimi diciotto mesi hanno rappresentato un momento di svolta assai significativo sulla strada della cura definitiva di queste patologie.
Nel recente passato abbiamo già affrontato il discorso sul trapianto genico seguendo gli sviluppi del trial clinico di Michel Sadelain allo Sloan Kettering di New York, anche attraverso l’esperienza diretta di uno dei suoi protagonisti, ma adesso torniamo sull’argomento per riflettere assieme su quanto si è concretamente raggiunto in questi ultimi mesi.
Abbiamo imparato a familiarizzare con termini come “vettore”, il sistema per veicolare il gene sano nella cellula staminale ematopoietica, come “condizionamento”, la terapia per creare nel midollo lo spazio necessario all’impianto delle nuove staminali, tutti termini che teniamo a mente e che ci serviranno più avanti.
Alla conferenza Pan-Euroepa di Atene promossa dalla TIF, lo scorso mese di novembre, è stata diffusa la notizia di un secondo studio, dopo quello di New York, sul trapianto genico, studio che ha un paradigma completamente diverso rispetto al suo precedente in quanto sviluppato da una azienda commerciale, che detiene quindi un interesse economico nel promuovere il suo prodotto.
Secondo i dati diffusi alla conferenza annuale della American Society of Hematology (ASH), questo nuovo studio clinico, che coinvolge gli Stati Uniti e la Francia, si dimostra assai interessante per diversi aspetti: innanzitutto sembra consentire il raggiungimento dell’indipendenza trasfusionale in un tempo molto breve, intorno ai tre mesi; secondariamente è stato testato anche su pazienti affetti da drepanocitosi, almeno un paio sono già stati trattati a Parigi nel braccio europeo del trial.
A differenza dello studio newyorkese, in questo caso i dati sono stati immediatamente divulgati, anche se alcuni aspetti devono essere ancora attentamente valutati, per una ragione di mero interesse commerciale che non esistono per il trial omologo di Sadelain.
Al di là della rapidità con la quale si è data pubblica conoscenza di questo studio, l’azienda che lo sta promuovendo (Bluebird.bio) assicura che la sicurezza dei pazienti e la tollerabilità del trattamento siano le loro priorità.
I motivi addotti per spiegare i sorprendenti risultati raggiunti sono attribuibili al livello di purezza del vettore utilizzato ed al condizionamento molto aggressivo, rispetto a quello di New York, che usano per demolire il midollo del paziente. Dallo scorso mese di febbraio, inoltre, anche l’Italia sdogana il suo primo studio di terapia genica per la thalassemia grazie al gruppo di ricerca guidato dalla professoressa Giuliana Ferrari al Tiget-San Raffaele di Milano, trial sponsorizzato da Telethon.
Il percorso del trial è stato illustrato ai pazienti durante un meeting tenutosi a Milano qualche giorno fa (leggere il servizio alle pagine 8 e 9 – n.d.R.) ed ha una particolarità che subito balza agli occhi: i pazienti sono stati parte integrante del lavoro avendo collaborato alla stesura del consenso informato che dovrà essere firmato da coloro i quali saranno candidati a questo studio.
Questo che può sembrare un dettaglio di poco conto ha invece un’importanza rilevante perché corrisponde esattamente con ciò che le nuove normative europee prevedono rispetto alla partecipazione dei pazienti ai processi decisionali che li riguardano.
Quindi, un calcio alla vecchia configurazione del “paziente al centro” come obiettivo finale di un processo deciso da altri, ma piuttosto un nuovo paradigma con il “paziente a fianco” del medico e partecipe consapevole e decisivo riguardo al processo.
Senza addentrarci nei dettagli tecnici della procedura, che resta quella ormai consolidata dall’esperienza, sarà sufficiente dire che lo studio prevede di coinvolgere 10 pazienti in totale, inizialmente 3 adulti ed in fasi successive, 3 ragazzi di età compresa fra 8 e 17 anni quindi i bambini dai 3 ai 7 anni.
Una nota di colore è costituita dal nome con il quale è stato battezzato il vettore italiano, “Globe”, che evoca la forma del pianeta sul quale viviamo ma anche la sintesi della parola “emoglobina” che promette di produrre.
Non è inutile evidenziare i molti aspetti positivi che riguardano lo studio italiano, primo fra tutti la consolidata esperienza del San Raffaele in campo di terapia genica, applicata ad altre patologie, che ha dato risultati stupefacenti in termine di successi conseguiti.
Certamente il fatto di accodarsi ad altri studi in corso, dei quali abbiamo detto, consente di usufruire dell’esperienza specifica accumulata in questi mesi per meglio capire come e dove agire per garantire risultati migliori.
Non va trascurato poi l’aspetto relativo ai costi da sostenere per la terapia che non sono solamente quelli economici ma anche di natura psicologica e sociale per chi si candida ad affrontare questo trattamento.
Da questo punto di vista vivere l’esperienza all’interno di un ospedale italiano senza barriere linguistiche e potendo contare sulla vicinanza di famiglia ed amici è un dettaglio non da poco per superare le difficoltà cui inevitabilmente si andrà incontro.
Prima di cantare vittoria sarà necessario comprovare l’effettiva praticabilità di questa tecnica innovativa in ognuno di questi studi che sono promettenti ma che sarà necessario valutare in termini di rischio-beneficio e di sostenibilità economica.
Abbiamo già avuto modo di ricordare che la vera innovazione è quella che diventa disponibile per tutti e non quella fruibile solo da un’elite, quindi aspettiamo di toccare con mano i risultati che si raggiungeranno e costatarne la loro durata nel tempo.
La sensazione, come dicevamo all’inizio, è quella di aver imboccato una strada dalla quale ben difficilmente si tornerà indietro.
È stato un percorso lungo e difficile, spesso impervio e costellato da imprevisti ma infine di successo e risponde a quello che fino a poco tempo fa costituiva una vera e propria utopia.
Ci sentiamo di dire che la fine del percorso oggi s’intravveda solo, perché molti aspetti andranno ancora chiariti e probabilmente molte cose che oggi sembrano aver raggiunto un margine accettabile di rischio, insito in ogni procedura medica, troveranno, sperabilmente, soluzioni migliori.
Non possiamo non riconoscere che i veri beneficiari possano essere le generazioni dei nostri ventenni, e quelle successive che, grazie ai passi da gigante compiuti nella terapia tradizionale, arriveranno pronti e, si spera, in buona forma a varcare la linea del traguardo con la storia.
Loris Brunetta