Questo è un editoriale, scritto “con il sangue”.
Chi lo firma è stato autorizzato dal direttore, anzi, dirò di più, è stato quasi obbligato a scriverlo.
Perché si chiederanno i nostri lettori… ed è presto detto.
Luigi Ambroso, presidente del “Comitato 210 per un’equa giustizia” si è battuto fin dai primi anni 90 affinché le persone infettate (lui stesso tra coloro che consideriamo sopravvissuti) ottenessero giustizia.
Il nostro giornale potrebbe pubblicare un libro per raccontare tutti gli articoli scritti in questi anni e le copertine pubblicate e non sorprenderà se anche in questo caso la copertina di questo numero sarà significativa, tragicamente significativa e così quasi “soffusa” e con un disegno quasi incerto ma molto significativo.
Oggi, il dolore soprattutto per le persone che abbiamo perso, diventa ulteriore sofferenza e frustrazione dopo la sentenza emessa dal Tribunale di Napoli, quella di cui si parla in questo editoriale.
Lo si legge nelle righe di questo articolo e lo si evince anche dalla copertina dove sono allineate tante croci.
Forse sarà l’ultima volta che ne parliamo ma la sofferenza rimarrà impressa nella memoria di tutti noi che in questi anni abbiamo vissuto direttamente o indirettamente questa tragedia.
Il Direttore
Dopo la sentenza del processo di Napoli del 25 marzo 2019
in-giustizia è fatta!!!…
“Dopo quarant’anni di attesa, molti dei quali passati a combattere affinché venisse fatta luce sui fatti e individuati e condannati i colpevoli per il contagio di migliaia di emofilici, dei quali almeno 500 sono morti a causa della somministrazione di emoderivati infetti, circa quattro anni fa, con molta fatica, siamo riusciti ad ottenere un rinvio a giudizio per omicidio colposo plurimo e così è iniziato il c.d. processo di Napoli.
Ho partecipato a molte udienze, all’inizio in qualità di presidente del “Comitato 210 per un’equa giustizia” e nell’ultimo anno e mezzo anche come rappresentante di “FedEmo”.
È stato un processo pesante da sopportare, per chi, come me, ha vissuto quegli anni ed è stato contagiato da entrambi i virus e che ha visto la morte talmente da vicino da entrarci dentro e tornarne fuori e ha anche visto morire molti amici, spesso in giovane età.
Anni bui in cui sei già morto psichicamente prima di esserlo fisicamente.
Nell’ascoltare le testimonianze, nel collegare i passaggi, nel dare forma alla ragnatela che ha permesso che tutto ciò accadesse, è stato un continuo rivivere quei momenti.
Quante volte, sentendo palesi bugie, avrei voluto alzarmi e gridare che la verità è un altra, che io c’ero e so come sono andati i fatti, ma ho dovuto tacere perché non è permesso parlare!
Quanta rabbia nel capire una volta di più che tutto questo si poteva evitare, ma, per denaro, si è preferito sacrificare delle vittime innocenti, convinte di essere curate.
Come dicevo è stato molto difficile, ma vista l’attenzione del giudice, che spesso chiedeva chiarimenti e che ci è sembrato si potesse anche arrivare ad una conclusione diversa, seppur nella consapevolezzao che sarebbe stato difficile arrivare ad una condanna perché mancavano molti degli attori che hanno fatto parte della vicenda, però, dati i fatti emersi, si era accesa una piccola speranza che magari un minimo di giustizia sarebbe arrivata.
Non ci aspettavamo una condanna, ci sarebbe bastata anche l’assoluzione con una formula dubitativa.
I giorni, ma soprattutto le ultime ore che hanno preceduto la sentenza, sono stati lunghi.
Eravamo tesi, ma ancora speranzosi: sono bastati 40 secondi (il tempo della lettura della sentenza) per gelare le nostre piccole aspettative.
È stata come una pugnalata alla schiena: in aula è immediatamente calato un silenzio gelido; nessuno riusciva a proferire una parola.
Siamo rimasti ammutoliti, la mente è andata ai tanti amici che non ci sono più, morti ancora una volta senza un senso.
Ho provato quasi la stessa sensazione di quando sono stato ad Auschwitz e chi c’è stato può comprendere le mie parole.
Non è possibile descrivere cosa si prova, sono molti gli stati d’animo che si affollano, si sovrastano, si mescolano: rabbia, delusione, senso di ingiustizia, annichilimento e impotenza. Una cosa che non ci sta nella testa, sensazioni che ti restano dentro per giorni e giorni; un’altra frattura che resterà scolpita per sempre nella mente.
A noi non rimane che l’amarezza di capire che per la giustizia è tutto a posto, “il fatto non sussiste”, quindi nessun colpevole. A tutta la nostra comunità non resta che continuare a portare da soli, a testa alta, la nostra croce”.
Luigi Ambroso
La motivazione della sentenza
“…il fatto non sussiste…”
Si nega che circa 2.600 sono stati contagiati e più di 500 sono morti
LA STORIA
La sentenza è arrivata a distanza di quasi 40 anni dall’inizio dei contagi causati da emoderivati c.d. industriali, che per quasi un ventennio (inizi anni ‘70 fine anni ‘80) venivano prodotti con sangue infetto, raccolto da donatori non controllati ad alto rischio, per lo più proveniente dagli Stati Uniti.
I concentrati di FVIII e FIX erano prodotti da quattro industrie americane, una austriaca e una anche italiana.
È emerso con chiarezza nel processo penale appena terminato che tutte le industrie si comportarono allo stesso modo ed è stato anche appurato che si resero conto fin da subito che i concentrati procuravano dei contagi e che erano pericolosi per la comunità emofilica, ma non fecero nulla fino alla metà degli anni 80, seppur si conoscessero già delle tecniche di inattivazione virale.
Perfino quando la FDA americana vietò la vendita dei prodotti non trattati al calore negli Stati Uniti, continuarono a venderli in Europa e naturalmente anche in Italia, grazie anche alla complicità di dirigenti a capo di apparati dello stato, volti alla farmaco sorveglianza, quali ad esempio, il MDS, ISS.
LE CONSEGUENZE
La conseguenza di questa pratica di raccolta ha provocato il contagio della quasi totalità degli emofilici Italiani (ma così è stato in tutto il mondo). Negli anni ‘70 si calcola siano stati circa 2.600 gli emofilici italiani, praticamente tutti contagiati dal virus dell’epatite C (HCV), metà di loro anche dell’HIV. Ad oggi oltre 500 di noi non ce l’hanno fatta e purtroppo altri ancora ci lasceranno.
I PROCESSI
Da quasi 25 anni la nostra comunità sta cercando di ottenere giustizia.
Più di una procura, Trento, Roma, Napoli, per citare le più importanti, si sono occupate (per lo più su iniziative promosse dai pazienti, dai famigliari e dalle associazioni) della vicenda. I capi d’accusa sono via via cambiati, anche perché le lungaggini della nostra giustizia hanno permesso che i reati ipotizzati si prescrivessero. Si è passati da “epidemia dolosa”, poi derubricata in “epidemia colposa”, quindi “omicidio colposo plurimo – aggravato dalla consapevolezza dell’evento”, in fine “omicidio colposo plurimo”.
Più di un PM, GIP e GUP hanno indagato sulla vicenda, arrivando a decisioni diverse, pur essendo il “caso” sempre lo stesso. A volte hanno archiviato per intervenuta prescrizione: sì, perché in Italia il reato di epidemia colposa si prescrive in 5 anni.
Spesso ne hanno chiesto l’archiviazione perché incredibilmente non hanno ritenuto che ci fossero elementi sufficienti per sostenere una accusa.
IL RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI
Le associazioni, unitamente alle famiglie delle vittime, hanno puntualmente impugnato tali decisioni e finalmente, poco più di due anni fa, siamo riusciti ad avere un rinvio a giudizio.
Il capo di accusa era “omicidio colposo plurimo” per sole 9 vittime (la punta dell’iceberg); anche qui incombeva la prescrizione per alcune delle vittime, dopo 15 anni dalla loro morte.
Gli imputati erano: Duilio Poggiolini in qualità di ex direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del Ministero della Sanità e alcuni dirigenti delle industrie del Gruppo Marcucci.
Anche qui ci sarebbe molto da commentare, ad esempio, non si capisce perché il PM o il GIP, non abbiano ritenuto di imputare anche tutte le industrie che hanno prodotto i farmaci all’epoca dei fatti, perché solo Poggiolini?
E non anche l’allora Ministro della Sanità? Perché non i responsabili dell’Istituto Superiore di Sanità, organo deputato alla farmaco sorveglianza?
Ecco che il processo nasce già monco.
IL PROCESSO
Il processo inizia nel maggio del 2015 e da allora si sono tenute 61 udienze e sono stati ascoltati oltre 100 testimoni.
Per la prima volta in un’aula di tribunale Italiano sono stati pubblicamente confermati molti elementi che erano da tempo noti alla nostra comunità, tra cui il fatto che tutti i concentrati di FVIII e FIX di produzione industriale del tempo fossero praticamente tutti infetti e bastasse anche una sola infusione per rimanere contagiati.
Tra le delusioni del procedimento appena concluso, va segnalata la quasi totale assenza del Ministero della Salute, che alla fine ha perfino rinunciato all’accusa, abbandonando ancora una volta gli ammalati (con i quali invece si è accanito e si accanisce tutt’ora continuamente). Altra amarezza va al singolare comportamento del Pubblico Ministero, che ha chiesto l’assoluzione degli imputati fin dalle primissime udienze, confermandola anche nella sua arringa di finale.
Sapevamo che sarebbe stato difficile arrivare ad una condanna perché, nella maggior parte dei casi, era arduo, se non impossibile, stabilire quale prodotto avesse provocato il contagio per primo, tuttavia ci si aspettava almeno una assoluzione con una formula dubitativa. Purtroppo così non è stato e la piena assoluzione ci rende ancora una volta orfani di una giustizia, quella giustizia in cui avevamo riposto ancora un minimo di fiducia.
LA CONCLUSIONE
Tutti assolti perché “IL FATTO NON SUSSITE” è come negare 2.600 contagi e 500 morti, uccisi ancora una volta da uno stato, con la “s” molto minuscola, che non ha saputo proteggere i suoi cittadini e nulla ha fatto per trovare e condannare i responsabili di questo massacro.
Fedemo, che rappresenta l’intera comunità emofilica, si era costituita parte civile e ha seguito da vicino tutte le fasi del processo, certamente non può accettare che la conclusione sancita dal Tribunale di Napoli metta la parola fine su questa triste vicenda e non intende arrendersi di fronte a quella sentenza: per questo durante l’ultima Giornata Mondiale dell’Emofilia del 14 aprile, abbiamo indossato una coccarda e abbiamo osservato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime e ci siamo appellati alla sensibilità della politica, per chiedere, a nome di tutti gli emofilici Italiani, che venga formata una Commissione Parlamentare d’Inchiesta in grado di ricostruire finalmente la verità storica su quei fatti e di individuare le responsabilità.
Il Direttivo FedEmo